Fino all’epoca relativamente recente in cui si è scoperta meta turistica tra le più ambite al mondo, l’Islanda ha vissuto di pesca e pastorizia. E così ci sono villaggi di pescatori che oggi organizzano per i turisti la gita sul peschereccio per andare a pesca in mare con la gente del posto.

Tutto ciò nell’ottica di offrire al turista qualcosa di organizzato da fare,  perché altrimenti il posto “non offre niente”, come c’è scritto sulla guida. Un po’ come se a Fiumicino o Stromboli o Sorrento o Polignano i pescatori si mettessero a organizzare la gita in barca non per andare a fare il bagno in mare aperto ma per far provare al turista l’ebbrezza di pescare e puzzare di pesce. Ok, magari lo fanno, ma non mi pare particolarmente attraente.

E a proposito di puzza di pesce, a Suđureyri (il villaggio in questione) c’è anche una fabbrica che ti accoglie con un cartello che recita “del pesce non si butta via niente!” e che vanta di riutilizzare tutti gli scarti della lavorazione del pesce, per diversi scopi: ad esempio, le teste di pesce essiccate vengono esportate dall’Islanda fino in Nigeria, per una qualche ragione.

Come si addice a un villaggio di pescatori, Suđureyri si trova proprio là dove il fiordo comincia, ovvero (guardando dall’altro punto di vista) là dove incontra l’oceano. E così, superata a fatica (per la puzza indescrivibile) la fabbrica di scarti di pesce, alla fine della strada asfaltata non ci sono cartelli, né una guida che dice di andare a vedere, ma c’è uno sterrato che costeggia l’oceano per un bel po’. A piedi non passa nessuno nell’arco di un paio d’ore. Solo due macchine in tutto. C’è una fattoria sperduta di fronte all’oceano, un bivio che si addentra in una valle verso montagne innevate, cascate che dalla scogliera si buttano dritte sulla strada e verso il mare, le pecore che in Islanda si trovano solo in gruppi di tre. E l’oceano che in sé vale il prezzo del biglietto. Ovviamente gratis.

Suđureyri, fiordi del Nord-Ovest, Islanda.

 

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