Sono seduta a terra da mezz’ora a bordo strada su una salita dove finisce l’asfalto e inizia la gravel road, la strada di ghiaia. A pochi metri da me un cartello segnala “gravel road ahead” e intima all’automobilista di rallentare e di prestare attenzione ai sassolini che la macchina potrebbe far schizzare in tutte le direzioni.
Sono all’entrata di un paese che si chiama Þingeyri e che in questi giorni si anima per una specie di sagra o festa vichinga, che non è pensata per i turisti (tanto è vero che locandine e sito sono solo in islandese) ma per far tornare a casa una volta l’anno gli abitanti del luogo che per la stragrande maggioranza sono andati via. Non a caso sia ieri che oggi a portarmi qui sono state persone che tornavano dall’aeroporto, dove erano andati a prendere qualcuno tornato apposta per la sagra. In compenso c’è anche chi a Þingeyri ci si è trasferito: una coppia, lei belga e lui danese, che dopo essere stata qui in vacanza ha comprato un rudere per cinquemila corone (ovvero il prezzo medio che oggi pago per dormire in sacco a pelo nella camerata di un ostello), l’ha ristrutturato e ha aperto un cafè molto carino, il Simbahöllin, che organizza anche escursioni a cavallo, noleggia mountain bike (servizio non facile da trovare da queste parti) ed è diventato un’istituzione della zona.
Anche ieri sono stata seduta su questo pezzo ďasfalto per un’ora e mezza facendo l’autostop e aspettando invano un passaggio per andare a sud. Non il sud dell’Islanda, ma la costa meridionale della regione dei fiordi. Un centinaio di chilometri più giù in linea d’aria, c’è Látrabjarg, la scogliera più alta d’Europa e il punto più a ovest dell’Europa non continentale, Azzorre escluse (ognuno ha il criterio che gli fa più comodo per stabilire dove finisce l’Europa). Il punto più a ovest sulla terraferma è un’altra scogliera, Cabo da Roca in Portogallo. Già ci sono stata qualche anno fa e un po’ mi viene il dubbio che Látrabjarg sia una mezza fregatura come Capo Nord, e un po’ anche come Cabo da Roca che ricordo bello ma non eccezionale.
Viste le difficoltà nel raggiungerla, avrei tranquillamente rinunciato ad andare a Látrabjarg, ma tutti insistono dicendo che si tratti di uno dei posti più spettacolari in Islanda e, tra i più spettacolari, uno dei meno visitati, perché arrivarci è una storia di centinaia di chilometri di percorsi tortuosi, fiordi infiniti e strade di ghiaia. A est di Reykjavík e molto più raggiungibili ci sono la scogliera e la grande spiaggia di Vík, che per inciso è il posto più piovoso d’Islanda con 300 giorni di precipitazioni annue. Infatti quando ci sono stata, due anni fa, pioveva a secchiate. Invece oggi è una giornata spettacolare e godersi Látrabjarg con questo sole sarebbe magnifico, ma viste le difficoltà nel trovare un passaggio anche oggi, dubito di riuscire a fare in un giorno tutta la strada che mi separa da lì.
Le scogliere di Látrabjarg e Vík hanno in comune la presenza di enormi colonie di pulcinella di mare, gli uccelli dal becco multicolore che sono così carini ma che poi qui si mangiano al ristorante. La gente dei fiordi, però, ti spiega quasi stizzita che i pulcinella di Látrabjarg sono molto più “cordiali” di quelli di Vík. Staremo a vedere.
Perché sto qui a fare l’autostop in un posto in cui passano forse dieci macchine all’ora e chi passa non si ferma per offrirmi un passaggio? Perché per andare giù non ci sono autobus. La linea di autobus che ho usato per spostarmi nel raggio di 50km da Ísafjőrđur finisce qui a Þingeyri. Più in là non c’è nulla. Anzi, un bus che fa il giro ci sarebbe, ma sono rimasta senza parole quando al telefono mi è stato spiegato che il prezzo del viaggio è più o meno quello che ho pagato per il volo andata e ritorno da Roma a Reykjavík. Quindi, non resta che tentare la sorte e, male che vada, tornare indietro all’ostello di Páll, dove ormai sono di casa.
Da ieri pomeriggio sembra arrivata l’estate e fare l’autostop al sole islandese non è troppo male. Ma il tempo passa e quando ormai sto per cedere e andare al barbecue che è in programma alla sagra, un signore islandese si ferma e mi dice che mi può portare fino a Tálknafjőrdur, ovvero più o meno laddove finisce la strada di ghiaia e ricomincia la zona abitata. Ci vogliono due ore a percorrere un centinaio di chilometri tra un’infinità di montagne, sassi e neve. Il guidatore è gentilissimo e fa persino una sosta di un quarto d’ora apposta perché io possa fare un giro a vedere la cascata più famosa della regione dei fiordi, Dynjandi. E poi mi accompagna fino all’entrata dell’ostello a Bildudalur.
Sono ancora le due e mezza di pomeriggio, ma dopo essere riuscita nell’impresa della traversata in autostop, mi concedo di fermarmi qui, in questo villaggio che, trovandosi in una piccolissima baia riparata dalle montagne su un lato del fiordo, ha il clima più mite di tutta la zona. Infatti mi ritrovo con mia grande sorpresa a passare il pomeriggio in costume, shorts e canotta, non lontano dal circolo polare artico. E mi godo l’ostello tutto per me. Ho telefonato per prenotare un posto letto ma il receptionist, un ragazzo che parla italiano meglio di me, non arriverà che tra qualche ora. Intanto posso entrare, prendere possesso del mio posto letto, cucinare, collegarmi a internet. Le porte sono aperte. Da queste parti si usa così.
Bildudalur, fiordi del Nord-Ovest, Islanda.