La golden hour. È sempre lei a fregarmi. Quando il sole se ne sta lì che fa finta di tramontare, è quasi mezzanotte e devi tirare fuori immediatamente la macchina fotografica per scattare una, due, dieci foto a quella luce che rende bella persino la stazione di servizio dove partendo da Reykjavík per i fiordi in una piovosa domenica pomeriggio di due settimane fa avevo, con un mio certo stupore, preso il caffè gratis (per poi imparare che in Islanda a volte è così).

Sono passate due settimane e sono di ritorno. Nell’autobus mi sono mangiata tutta la malinconia, ho ripreso i contatti con casa e lavoro e mi sono convinta che, in fondo, è meglio non passare di botto da un fiordo sperduto nel nord dell’Islanda al caos della vita romana, ma fare una tappa intermedia, per quanto forzata, in quella che già due anni fa, di ritorno da un giro nel resto dell’isola, mi era parsa una metropoli, ma in fondo è solo una città di poco più di duecentomila abitanti: Reykjavík.

Alcuni autobus extraurbani arrivano e partono non dalla più nota stazione degli autobus BSÍ, ai margini del centro, ma da una stazione secondaria, Mjódd, che dal centro dista un’ora di cammino o un quarto d’ora di bus urbano. Scendo dall’autobus che viene dai fiordi tra una folla di islandesi indisciplinati (non scendono mica ordinatamente dall’autobus una fila alla volta, come certi nordici), recupero lo zaino, vedo il sole che tramonta dietro la stazione di servizio e mi distraggo a scattare delle foto. Così il 3, ovvero il mezzo che dovrebbe portarmi in centro e al mio ostello, mi parte sotto in naso. Il prossimo autobus è tra mezz’ora esatta, e tra mezz’ora partiranno anche gli autobus di altre due linee dirette in centro. Prima non c’è niente. Poi arriveranno e ripartiranno tutti e tre contemporaneamente, in un esempio di misterioso nonsense stabilito da un orario ufficiale che viene rispettato al secondo.

Sono le undici di sera, ma non vado di fretta. Anzi, per due settimane non ho saputo cosa fosse, la fretta. Penso di sedermi a leggere alla fermata e so che finirò come una scema a scattare foto al cielo per la restante mezz’ora di attesa. Uno dei passeggeri dell’autobus con cui sono arrivata a Reykjavík, un britannico vestito come di ritorno da Woodstock fuori tempo massimo, fretta invece ne ha. Credeva di arrivare alla BSÍ e ha detto al couchsurfer che lo ospiterà per la notte che si sarebbero visti lì. Sconvolto dalla scoperta di essere arrivato a Mjódd invece che lì, ha perso la coincidenza con il bus urbano e deve sfogare tutto il suo panico con i pochi presenti nel parcheggio. Non vorrei essere nei panni del tizio che lo aspetta, che cerca di tranquillizzarlo al telefono che il ritardo non è un problema, ma in cambio ottiene una valanga di scuse non richieste e urlate a lui e di conseguenza anche a noi. Benvenuti in città, benvenuti nello stress delle piccole cose inutili. No, non voglio tornare.

Cerco di difendermi, voglio andarmene dal parcheggio, lontano dalla voce di quest’uomo, penso che sarà meglio andare in centro a piedi, o magari si riesce a fare l’autostop facilmente anche qui. Prendo lo zaino ma una ragazza tedesca mi si avvicina e mi dice che il tizio stressato era da giorni con lei a un corso di non so cosa nel nord dell’Islanda e che è stato così dall’inizio alla fine. Inizio a chiacchierare con lei e la mezz’ora passa, prendiamo l’autobus insieme mentre il reduce di Woodstock salta a bordo di un altro che è arrivato nello stesso momento.

Nell’autobus stanno tutti con gli occhi sullo schermo del cellulare, come in tutte le città del mondo mi sa. Un’abitudine a cui non ho voglia di tornare. Voglio alzare gli occhi e “vedere” davvero le persone intorno a me. Penso a quante storie in meno avrei avuto da raccontare se non avessi guardato con occhi tanto aperti tutto ciò che mi accadeva intorno in questo viaggio. Penso a una frase di un libro che amo moltissimo. Parla di un uomo che decide di cambiare vita, andar via di casa, e nel domandarsi cosa sia scattato nella sua mente, dice “When did it start going wrong with Susan? When I opened my eyes; when I decided I wanted to see”. Mentre chiacchiero con la ragazza tedesca, a un’altra ragazza seduta non lontano da noi cade il cellulare. Lei non vede dov’è finito, la tedesca si alza e va a riportarglielo. La ragazza del cellulare ringrazia, sorride, e ci offre dei biscotti per ringraziare del gesto. Mi sento meglio.

L’ostello è molto carino ma c’è una puzza incredibile di scarponi in tutti gli ambienti in cui metto piede. Le camerate in questi ostelli in genere sono nel seminterrato e non puoi apprezzare la luce che filtra dalle tende anche a mezzanotte e mezza (ormai ci ho fatto l’abitudine e mi piace). E soprattutto non c’è la civilissima abitudine – la norma in questi paesi – di lasciare fuori le scarpe. La mia esperienza, in questi grandi ostelli di città, non solo in Islanda, è che gli ambienti comuni sono stupendi, ma gli ospiti dell’ostello non interagiscono tra loro. C’è molta più gente che è qui da sola rispetto a ogni altro ostello in cui sono stata, ma chi è solo rimane solo con il proprio cellulare o il proprio tablet e la preziosa connessione wifi. Non mi è mai successo altrove in questo viaggio che le conversazioni non vadano oltre le dieci parole e si fermino lì. “La cucina è nel corridoio a destra”, “ecco la password del wifi”, “questa sedia è libera”.

Al mattino ripenso a ciò che scrivevo di Reykjavík quando ero passata qui nel corso del viaggio di andata. La capitale era la zona di comfort da cui spiccare il volo verso l’ignoto, verso una terra spopolata di turisti e di residenti, che immaginavo sarebbe stata avara di bel tempo e di belle occasioni da cogliere. Adesso mi pare proprio che sia il contrario. Non ho voglia di buttarmi tra i turisti e tra i cartelloni che promuovono tour toccata e fuga come il puffin express per andare a vedere i pulcinella di mare.

Incredibile come le percezioni possano cambiare in così pochi giorni. Qui non scambio due parole con nessuno se non in un lungo pranzo con Herdís, geologa che nel tempo libero fa la guida turistica e che ci ha accompagnati nel trekking da Landmannalaugar a Skógar due anni fa, e con Marina, austriaca che viaggia anche lei da sola e che sta andando come me a prendere il volo per Roma. Con lei scambio racconti di autostop e le racconto sconsolata che le condizioni in cui versa l’aeroporto di Fiumicino sono dovute a un incendio causato da uno stupido condizionatore portatile.

In aeroporto la hostess di terra mi annuncia che il volo ha due ore di ritardo, perdo di vista Marina e non la ritroverò fino all’atterraggio a Roma, ma ritrovo ancora una volta Olaf e Helen, i tedeschi conosciuti a Korpudalur che già avevano recuperato per me il cavalletto della macchina fotografica dimenticato a Bildudalur. Seguono aggiornamenti sugli ultimi giorni di viaggio ed elenchi di cose che entrambi, pur avendo esplorato i fiordi in lungo e in largo, per un motivo per l’altro ci siamo persi. Per un attimo sono di nuovo nel piccolo mondo dei fiordi, e so che ci dovrò tornare. Ma che di questi piccoli mondi ce ne sono tanti che ancora non conosco e non so di voler visitare. Mentre attendo l’imbarco previsto crudelmente non prima dell’una e venti di notte, con la mente sono già a un altro viaggio. D’altronde, questo blog non può certo finire qui 🙂

Reykjavík, Islanda.

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