Sono le otto e mezza di una sera senza vento quando arrivo alla porta dell’ostello di Stamsund. C’è un cartello, scritto in prima persona come molti altri nell’ostello, che invita a bussare o chiamare il numero 6 con una specie di citofono, e pazientare perché, scrive Roar, il proprietario, “it might take a bit time”. E infatti Roar mi dice di accomodarmi nella cucina-sala comune e aspettarlo lì. Meno male, perché sono sfinita e lo zaino è pesante.
Varco la soglia della grande sala dove una decina di persone stanno cenando e conversando in inglese e francese. Ascoltandoli di sfuggita mi accorgo con mio grande stupore che fino a un attimo prima stavo pensando in tedesco. Ho fatto l’ultima mezz’ora di viaggio in macchina con una coppia svizzera sulla settantina, incontrata mentre facevo l’autostop a un incrocio tra la strada principale delle Lofoten, la E10, dove d’estate il traffico è abbondante, e la strada secondaria che mi porterà a Stamsund, dove in un quarto d’ora di attesa non ha svoltato neanche una macchina. Gli svizzeri si fermano a bordo strada e incrocio speranzosa i loro sguardi mentre consultano perplessi una grande mappa cartacea. Alla fine mi avvicino alla macchina e mi prendono con loro, vanno nella mia stessa direzione ma non devono arrivare fino a Stamsund, però salto a bordo, così intanto mi avvicino alla meta. Loro parlano poco inglese e quando scoprono che conosco un po’ il tedesco sono entusiasti, la signora dice che da quando sono qui hanno parlato tedesco solo tra di loro, e così improvvisamente sono catapultata in una conversazione in cui riesco a usare persino parole come beobachtet e einverstanden, la cui esistenza avevo completamente dimenticato e che ora riemergono da chissà quale angolo della mia mente. Eppure ne ho incontrati, in queste settimane, di tedeschi, austriaci e svizzeri, e però la molla non è mai scattata. E invece stavolta loro sono tanto contenti da fare una deviazione di un po’ di chilometri per portarmi fino a Stamsund. Sto imparando che parlare diverse lingue serve a molto, per spostarsi in autostop e guadagnarsi le gentilezze di sconosciuti viaggiatori e gente del posto.
L’ostello di Stamsund è un posto speciale a detta di molti. Tra loro anche Cody Duncan, il fotografo americano del sito 68north, che qui conoscono in tanti e il cui ebook A photography guide to seasons on Lofoten – summer è l’unica guida di queste isole che possedevo prima di arrivare qui. Il libro dedica all’ostello di Stamsund un racconto a parte, che mi aveva affascinata sin da prima di partire, tanto è vero che avevo telefonato a Roar (che non accetta prenotazioni online) da Roma chiedendo se avesse posto per me da lì a qualche giorno. Scrive Cody Duncan: “the hostel and its owner, Roar, hold a special place for many backpackers and travelers to the Islands. It is one of those places where one might plan on a night or two, and then end up staying a week or more. It happened to me in the summer of 2001, but I was far from the first. Stamsund is a place where people return to year after year, simply to sit on the pier and look out over the sea, or to meet friends made in past years. Group dinners are cooked, often with fresh fish caught with the free rowboats and fishing gear, and solo travelers are never strangers for long. While I could go on, I will simply say, Stamsund is the reason for this book and all my travels to Lofoten”.
In realtà ciò che descrive il fotografo americano con queste parole è esattamente ciò che è accaduto a me nell’ostello di Å, dove sono arrivata per caso ormai dieci giorni fa dopo una telefonata fatta da Bodø per prenotare l’ultimo letto disponibile. Dieci giorni dopo la quotidianità di Å ormai è la mia ed è per questo che a Stamsund ci arrivo solo ora, solo per una notte e per trovare rifugio dopo una notte insonne e una lunga e avventurosa giornata.
Ho lasciato Å poco dopo mezzogiorno con la mia più recente compagna di avventure, la ragazza di Ginevra con cui ho condiviso cene nella microscopica cucina dell’ostello, sfide di autostop, escursioni, frutta secca, waffle, cinnamon rolls e pastis. Lei va a prendere il traghetto a Moskenes, cinque chilometri da Å, per dirigersi pian piano verso casa. Facciamo insieme l’autostop, poi io proseguirò da sola con l’obiettivo di arrivare a Henningsvær, dove si arrampica. Nei giorni scorsi ho provato più volte, invano, a contattare il climbers’ cafè e la scuola di arrampicata che c’è lì, per chiedere informazioni e anche per sapere se hanno posto per dormire in ostello come dicono sul loro sito. Vorrà dire che andrò a chiedere di persona.
Finalmente per la prima volta mi spingo più in là dell’isola di Moskenesøya e vedo un po’ come sono le Lofoten andando verso nord-est (Å si trova all’estremità sud-occidentale dell’arcipelago). Quasi tutti i 120km che mi separano da Henningsvær, eccezion fatta per il tratto finale, sono sulla strada principale e, nonostante la pioggia che contrariamente alle previsioni non mi abbandona mai del tutto, nel tempo record di tre ore e sette diversi passaggi sono già giunta a destinazione. Tre ore in cui facendo l’autostop incontro un’umanità varia e gentile: il padre di famiglia venuto in vacanza da Israele con la sua famiglia numerosa, che ha origini italiane e sta facendo su e giù da Reine ad Å col pulmino noleggiato, per ricaricare le batterie dopo aver dimenticato le luci accese tutta la notte; la surfista norvegese di ritorno da Unstad, paradiso del surf da queste parti, cui busso al finestrino per chiedere un passaggio mentre se ne sta ferma in una piazzola di sosta nella sua macchina stracolma di attrezzatura da surf, fotografia e campeggio a mandare messaggi col cellulare; la coppia di camperisti francesi che si sono conosciuti nel sud della Norvegia, dove vivono e dove spesso, mi dicono, gli expats socializzano solo tra loro; l’elettricista di Ramberg che mi rivela che i prezzi delle case in vendita qui sono decisamente accessibili rispetto a Roma e anche rispetto a Oslo; il signore spettinatissimo che ha una fattoria e mi racconta della vita in campagna con i ragazzi che vengono a fare i volontari con programmi tipo wwoofing; un’altra coppia di francesi che mi dà un passaggio nonostante abbia già a bordo un altro autostoppista; e il ragazzo afgano che lavora qui nel settore della pesca, che si ferma apposta per portarmi dall’uscita sud di Leknes, pessima per l’autostop, a quella nord, che è un po’ meglio, e che mi racconta che anche lui faceva l’autostop, quando era in Italia, ma diversamente da ciò che accade a me, per lui non era facile trovare qualcuno che si fermasse, vista la sua carnagione. Lui ora qui ha lavoro, macchina e documenti (anche se non basta, mi dice, perché soffre di solitudine e di nostalgia); in Italia, invece, non aveva né passaporto né permesso di soggiorno, e quindi era terrorizzato, ma non aveva scelta se non spostarsi così come sto facendo io in questi giorni. Mi ritorna alla mente ciò che pensavo e scrivevo qualche giorno fa facendo un amaro confronto tra i miei piacevoli viaggi in autostop e il modo in cui sono costretti a spostarsi i migranti che non hanno documenti e per i quali il viaggio è fuga e necessità.
Arrivo a Henningsvær felice della riuscita del viaggio in autostop, ma non so cosa aspettarmi di trovare lì. E infatti non trovo praticamente nulla. Il paese è carino e, in apparenza, molto turistico. Il climbers’ cafè è un’insegna azzurra in un vicolo. Entro e per le informazioni vengo rimbalzata al negozio di materiale da arrampicata, ovvero la porta di fronte nel vicolo. Il negozio è pieno di abbigliamento italiano della E9, di cui io ho una felpa gialla che indosso anche adesso e che è praticamente la mia coperta di Linus. Spiego che sono italiana, che ho con me imbraco e scarpette, e che sarei contenta di vedere le falesie e la gente che scala, e magari di trovare qualcuno con cui scalare un po’ sulle vie sportive (ovvero come quelle che abbiamo in Italia) che da queste parti dovrebbero esserci, ma non so dove, ma la persona cui mi rivolgo mi liquida con un “è tutto scritto sulla guida, comprala”. Io la comprerei anche volentieri se solo avessi la vaga sensazione che troverò il modo di scalare qui. Ok, forse avrei dovuto comprarla e basta, ma la sua risposta mi ha infastidita. Da un posto del genere mi aspettavo un atteggiamento più accogliente, più da guida locale e meno da commerciante. In più costui mi dice brusco che il loro ostello non ha camerate ma solo stanze, una soluzione che non va bene per me.
Così mi dirigo a piedi dall’altra parte dei grandi ponti che portano a Henningsvær, dove ci sono le pareti e dove mettono le tende gli arrampicatori. A questo punto metterò anch’io la tenda lì stasera. Con lo zaino pesante in spalla i pochi chilometri per arrivare alle falesie si rivelano piuttosto faticosi, per fortuna tra pioggia e sole ci scappa qualche scorcio con una luce bella da fotografare. Arrivo ai piedi di una grande parete che credo si chiami Gandalf wall. Ci sono quattro persone che scalano su una via a più tiri. Forse sono i quattro che ho incrociato prima in paese con indosso l’imbraco e in spalla la corda. Ci sono quattro tende non lontano dalla parete, piantate praticamente nel fango dopo la pioggia incessante di questi giorni. E ci sono due ragazze in lontananza che preparano l’attrezzatura vicino alla loro macchina. Esteticamente questo granito non ha lo stesso fascino di alcune pareti immense dalle parti di Reine e sulle spiagge di Bunes e Horseid, ma è qui che si concentra la stragrande maggioranza delle vie più ripetute delle Lofoten.
Comunque il tempo fa schifo e non c’è quasi nessuno, non ha senso montare qui la tenda per passare la notte nel fango. Sono già le cinque e mezza di pomeriggio e non credo che la falesia si riempirà di gente da qui alle prossime ore (anche se d’estate da queste parti si può scalare fino a tardi, anche ora a metà agosto fa buio solo per poche ore, e mai del tutto. È qualche giorno, in realtà, che il cielo inizia a diventare più scuro a tarda sera). Seguo l’istinto che mi dice che qui non passerò una bella serata e mi rimetto a fare l’autostop. Non ho una meta, forse potrei andare a Ramberg che è sulla via del ritorno per Å (dove ho in programma di essere di ritorno domani sera) e dove c’è una bella spiaggia dove potrei mettere la tenda. Comunque mi affido alla sorte e inizio intanto a tornare verso la strada principale, in autostop perché non ce la faccio a camminare ancora a lungo con lo zaino quasi a pieno carico. Una macchina mi sfreccia davanti, poi si ferma un pochino più in là senza farmi alcun cenno, ma mi avvicino e capisco che si è fermata per me. A bordo una coppia di studenti, lei di Oslo, lui di Torino, in vacanza qui con la famiglia di lei. Stanno andando a Hov. Mi pare perfetto! Il cielo si sta aprendo e Hov è una spiaggia dove c’è un campeggio, pubblicizzata come perfetta per ammirare il tramonto e (ma non è più stagione) il sole di mezzanotte.
Decido di andare con loro, il posto non è male e la luce è effettivamente splendida, ma la reception del campeggio è in realtà la reception del campo da golf adiacente. Incontro uno degli automobilisti che mi hanno dato un passaggio stamattina, è qui per giocare a golf e mi chiede come mai io sia qui e non a Henningsvær dove avevo dichiarato di essere diretta. In realtà ho avuto così tanti diversi passaggi in poco tempo, oggi, che lui non l’avevo molto riconosciuto. Comunque questo campeggio è posto ben diverso dall’idea che avevo per la serata, è così distante dal campeggio libero e selvaggio e dal falò sulla spiaggia di Bunes una settimana fa. Sicuramente se resto qui potrò fare delle belle foto stasera, ma ci sono solo camper, roulotte e golfisti e già mi vedo a rintanarmi sola soletta a scrivere nella sala cucina del campeggio, una stanzetta al piano interrato di un piccolo edificio. È la mia penultima sera alle Lofoten e ogni serata da quando sono qui è stata così bella, ricca di incontri, chiacchierate e spesso anche una buona cena casalinga o quasi, che non mi va di buttare questa serata così. E allora mentre passeggio sulla bella spiaggia e scambio due parole con un francese che gioca con la macchina fotografica a inseguire il sole che si nasconde tra le nuvole, telefono a Roar, all’ostello di Stamsund, e gli chiedo se ha un letto libero per stasera. C’è posto! Gli lascio il nome e lui “Giulia, ah, italiana!”, mi dice con una voce sorridente che poi non riuscirò ad abbinare al personaggio burbero in questione.
Stamsund non è lontanissima da qui, ma sono tutte strade secondarie per arrivarci, e ormai è quasi ora di cena, ci saranno meno macchine in giro. Però la coppia italo-norvegese di prima è qui in spiaggia. Mi salutano mentre, mollato lo zaino sulla sabbia, mi arrampico sugli scogli per una foto. Gli racconto che non dormirò qui ma a Stamsund e mi offrono un altro passaggio fino alla strada principale, ci diamo appuntamento alla macchina per quando tra un po’ avranno finito la loro passeggiata. Più facile di così… e piacevole tra l’altro, perché loro due sono persone davvero carine. Con loro arrivo fino all’incrocio dove poi troverò la coppia svizzera-tedesca che mi porterà a Stamsund. Dopo essere stata praticamente ferma a oziare (e perché no?) in ostello per giorni, oggi in otto ore ho fatto, tutto in autostop, un mezzo giro completo delle Lofoten, visto diversi posti che desideravo vedere, fatto un sacco di incontri. E la giornata non è finita.
Nella sala comune dell’ostello di Stamsund c’è un po’ di gente seduta a tavola per cena. Sono contenta di essere arrivata in tempo per cucinare al volo il cibo da microonde che ho comprato per fare in fretta stasera e mangiare insieme ad altri. Ma non faccio in tempo a posare lo zaino, aprirlo e prendere la mia busta del cibo, che uno dei commensali mi dice: “ma io ti conosco, eri in piazza ad Å col tuo zaino un po’ di giorni fa!”. Non ci siamo parlati, mi dice, ma si ricorda benissimo di me. Sono stupita! Michael, questo il suo nome, mi chiede se mi va un po’ della zuppa che lui e sua moglie Petra hanno preparato per cena. Faccio un po’ di complimenti ma lui insiste e così accetto, e così appena arrivata in ostello sono già felicemente a tavola con un’allegra e varia compagnia: oltre a Michael e Petra c’è una ragazza coreana che mi insegna a pronunciare “Samsung” nella sua lingua, una canadese che domani sera si imbarcherà sul costoso battello postale Hurtigurten e quindi ha cucinato e inscatolato numerose razioni di pasta da mangiare a bordo per non doversi svenare al ristorante della nave, un numeroso gruppo di francesi (“abbiamo troppi francesi qui”, commenta qualcuno), e Anna, cicloturista solitaria venuta dalla Nuova Zelanda a girare l’Europa in bici per otto mesi. Io faccio felice più di qualcuno tirando fuori dallo zaino e condividendo il mio pane all’uvetta della meravigliosa panetteria di Å è una lattina della birra locale, la Lofotpils, prodotta a Svolvær con “pura acqua delle montagne delle Lofoten”. Costa cara anche in negozio, come tutti gli alcolici qui, ma è un piacere a cui non so rinunciare.
A tavola racconto la mia lunga e felice giornata in autostop, le attese sempre molto brevi e tutti i giri che ho fatto. Nessuno dei presenti è un autostoppista, ma Michael viene in vacanza qui da molti anni e mi dice che non tanti riescono a fare l’autostop con la mia stessa facilità. Sicuramente merito del sorriso che porti, mi dice. Sono felice di sentirmelo dire. Così felice che non riesco a rispondere come avrei voluto: che devo questo sorriso non solo ai luoghi stupendi che viaggiando riesco a vedere, ma anche e soprattutto alle persone che incontro, a tutta questa abitudine a condividere, ad aprirsi, a conoscersi, a passare del tempo insieme. I viaggiatori sono spesso persone interessanti e talvolta meravigliose, e la ricchezza che ti lasciano certi incontri non ha prezzo.
E me ne convincerò una volta di più il mattino dopo, quando Michael e Petra, lui habitué di Stamsund da trent’anni, lei da meno, che sono qui in vacanza con una station wagon, una moto e uno scooter che si sono portati col carrello a rimorchio dal sud della Germania e che mi ricordano un po’ i miei genitori, proporranno a me, alla neozelandese Anna e alle mie due compagne di stanza, due diciottenni tedesche, di fare un giro in macchina a inseguire il bel tempo e vedere un po’ di posti belli da queste parti. Siamo in sei, quindi Michael prende la moto e Petra, che fa l’architetto e che stamattina si è messa un po’ a lavorare al computer, si porta in macchina queste quattro ragazze felici di essere guidate alla scoperta delle Lofoten da persone che le conoscono davvero bene.
Le altre ragazze sono veramente in gamba. Le due tedesche parlano un inglese quasi perfetto e da anni avevano pianificato di venire in viaggio da sole in Scandinavia per pensare al futuro dopo la maturità. Le ascolto stupita per la loro lucidità, la determinazione e la grazia con cui affrontano questo viaggio. Stanotte hanno dormito undici ore filate dopo due notti passate tra stazioni e treni, ma a vederle non avresti detto che fossero così a pezzi ieri sera. Raccontano che prima di venire qui sono andate a fare trekking per una settimana nelle montagne norvegesi: una settimana senza potersi connettere a internet (“i nostri amici non se lo spiegavano”, ma aggiungono che anche ora che sono “tornate nella civiltà” hanno una regola di connettersi a internet solo alcuni giorni), trascorsa dormendo in rifugi incustoditi, in cui ci sono scorte di cibo e lasci scritto su un registro ciò che hai preso, ti sarà poi addebitato sulla carta di credito. Tutto ciò a condizione di iscriversi al CAI norvegese, che si chiama DNT e che ti fornisce la chiave per questi rifugi. Alla loro età loro due hanno pianificato questo e molto altro, settimane di volontariato in diverse fattorie e in inverno un progetto di ricerca sociale sempre in Norvegia.
E poi Anna, che si è licenziata dal suo lavoro d’ufficio in Australia, ha spedito in aereo la sua bici fino alla Svizzera e da lì in bici e mezzi pubblici è arrivata fin qui, dormendo in tenda, pedalando anche un centinaio di chilometri al giorno pur essendo partita senza un grande allenamento, scrivendo un blog quando ne ha modo, e trasportando trenta chili di materiale (tra cui neanche un pantalone lungo, ne fa a meno persino qui) a bordo della sua bici. Anna normalmente fa campeggio libero, ma l’altra notte il vento furibondo che ha lasciato insonne tutto l’ostello di Å le ha danneggiato la struttura della tenda e l’ha costretta a fermarsi per qualche giorno qui in attesa dell’arrivo per posta dei pezzi di ricambio. E così oggi si gode il comodo giro in macchina con me e i tedeschi, guarda i ciclisti come lei che faticano su qualche salita e una volta tanto è contenta di riposare e chiacchierare. Lei viaggia e pedala quasi sempre da sola e dice che dopo un po’ si fa l’abitudine a tutto, a mangiare da sola, a spendere il meno possibile e a stare all’aperto con qualsiasi tempo, e si smette ad esempio di cercare riparo al chiuso quando fa freddo o piove. Mentre Michael e Petra ci portano a vedere le spiagge di Unstad, avvolta nella nebbia, Vikten, dove si soffia il vetro, e Ramberg, da cui ripartirò in autostop verso la mia “casa” di Å, più che concentrarmi sul paesaggio ascolto ammirata queste ragazze con le loro storie.
Sono le quattro di pomeriggio quando mi rimetto in viaggio per tornare a Å in autostop. Me la prenderò molto comoda e arriverò a destinazione alle sei e mezza, non prima di essere stata avvistata mentre mi aggiro nel campeggio di Ramberg da due ragazze francesi conosciute qualche giorno fa, di aver ottenuto un passaggio da un ragazzo svedese che ha la macchina carica di sci, surf e materiale da arrampicata e che mi svela tutto ciò che avrei voluto sapere il giorno prima a Henningsvær sulle falesie della zona, e di aver fatto a piedi gli ultimi cinque chilometri chiacchierando con due escursionisti francesi che hanno percorso a piedi praticamente tutte le Lofoten e che stasera metteranno la tenda sulla scogliera di Å.
Trecentoventi chilometri e trenta ore dopo essere partita per andare a dare un’occhiata alle pareti di Henningsvær, rientro alla base con un milione di piccole storie da raccontare. In queste trenta ore ho dato sfogo a tutta la mia sete di avventure in autostop e fatto un giro che avrei potuto fare in una settimana. Mi piace tantissimo perché è così, l’autostop. Basta seguire l’istinto, affidarsi un po’ alla sorte, and just let it flow.
Ostello di Å, Lofoten, Norvegia.