Il viaggio di ritorno, spesso, è come un nastro che si riavvolge.
Solo che oggi c’è un’altra luce, diversa, solo che ora noti tanti dettagli in più, solo che ciò che prima era estraneo oggi è familiare, il molo di Moskenes, i cartelli stradali, i pochi negozi (due, per l’esattezza) lungo la strada, i profili delle montagne e della costa, le barche parcheggiate, ogni curva di quei cinque chilometri che hai percorso mille volte in dodici giorni, in autostop, a piedi, in una macchina presa in prestito e una volta eccezionalmente persino in bus, sotto il diluvio, nella nebbia, nel mezzo buio di mezzanotte, e forse una volta o due anche sotto una parvenza di sole.
Solo che mentre il traghetto si allontana dall’arcipelago tu ora sai, come non sapevi prima, che quel paese illuminato da un raggio di sole è Reine, che sarà bella ma non ti ha conquistata, e sai che quella laggiù è la scogliera in fondo al parcheggio di Å, e hai imparato toponimi come Tind e Sorvågen e le distanze in chilometri.
Solo che quando ti risvegli dopo essere crollata di sonno sui sedili del traghetto stai arrivando in una Bodø che non potrebbe essere più diversa da quella della mattina di un lunedì piovoso e gelido che sembra trecento giorni fa ma era l’inizio della settimana scorsa, e ora a Bodø c’è il sole come non lo vedi da settimane e, superato l’ostacolo all’apparenza insormontabile di procurarti le monete giuste per lasciare lo zaino al deposito bagagli della stazione, puoi startene qualche ora in relax in riva al mare prima di ripartire per la fase due di un percorso che ti porterà a casa in 48 ore in autostop + traghetto + 4 treni + aereo + 2 autobus.
Solo che dopo undici giorni, duecentosessantacinque ore trascorse lontana dalla terraferma, tu non sei più la stessa. Dev’essere un fatto di isole, le isole t’intrappolano, sul serio, ti cambiano, ti trascinano nelle loro viscere, scavano nelle tue ferite, le curano, ne aprono di nuove e, se ne dai loro il tempo, curano anche quelle. Stromboli, Porto Santo, Islanda, Lofoten. La mia storia è fatta di isole e arcipelaghi che in una decina di giorni hanno rivoltato la mia vita come un calzino e me ne hanno restituita una nuova. Prendere o lasciare, anzi nessuna scelta, puoi solo abbandonarti come ho fatto in questi giorni a ciò che questi luoghi ti daranno e ti faranno, alla musica che non ascoltavi da un po’ e che oggi suona diversa, alle scelte da fare che non spaventano più come prima e che, anzi, vengono naturali, ogni volta che cammino un po’ da sola o mi siedo sulle rocce a guardare il mare un tassello in più, e ogni volta che riprendo una conversazione un altro tassello, così, in modo naturale, senza ricerca e senza fatica, solo perché il viaggio porta con sé, a saperli accogliere, un’infinità d’incontri con persone e con le loro storie, i loro progetti per il futuro, sogni, desideri e paure.
Da questo viaggio vado via con la sensazione che un percorso si è compiuto, che il tempo stavolta è bastato, che la chiave sta nella lentezza dei passi, nella risposta da dare a quel sentirsi dire “che ci fai ancora qui?” quando tutti corrono per mettere bandierine, per arrivare a farsi un selfie sulla vetta franosa e ingannevole di Reinebringen o in moto nel più breve tempo possibile all’Italia a Capo Nord, nello stare quasi fermi ad aspettare il momento in cui esce il sole o in cui la luce cambia per fare due foto, o, come mi ha detto una ragazza norvegese, a fare e rifare la stessa camminata, ripercorrendo i tuoi stessi passi, perché la luce, il cielo, i colori della natura non saranno mai gli stessi, e gli stessi non saranno neanche i tuoi sensi, i tuoi occhi.
È un arrivederci, isole belle. E grazie di tutto.
Bodø, Nordland, Norvegia.
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