Non è oggi, il mio capodanno. Lo aspetto, mancano pochi, ormai pochissimi giorni, al mattino in cui dopo mesi di preparativi e di attese sarò finalmente in volo verso nuove terre e una nuova vita.
In questi giorni di scatoloni e conti da chiudere, tramonti e scorci da immaginare, vestiti da scegliere e cene di saluto, che poi non è un addio, ma un arrivederci, ovunque sarò e ovunque saremo, all’improvviso arriva un momento in cui abbandono la frenesia delle mille cose da fare, e mentre richiudo un cassetto pieno di calzini quasi tutti rigorosamente appaiati (fantastico! sono orgogliosa di me!), mi rendo conto all’improvviso che il momento è arrivato, e che sono persino quasi pronta.
Pronta per cosa? Non per una nuova routine, non per una nuova casa, non per una terra di cui non parlo ancora la lingua e di cui non conosco ancora bene la geografia e la cultura, ma pronta per un nuovo inizio. Anzi, per un inizio che ha radici in un viaggio intrapreso esattamente sei mesi fa, in un’estate in cui ho dato fondo alle mie energie per scoprire cos’era il meglio che avevo da dare a me stessa – e, di conseguenza, alle persone vicine e lontane intorno a me.
Per un inizio che ha radici nelle parole che scrivevo sei mesi fa sul divanetto di un albergo nascosto tra le montagne alla fine di un fiordo tra i più settentrionali e isolati d’Islanda, in una sera di nuvole e vento alla fine di un giorno tra i più avventurosi che abbia mai vissuto.
Queste parole.
Un giorno accadde che l’abito che indossavo ogni giorno iniziò ad andarmi un po’ stretto, poi sempre più stretto. Eppure non ero ingrassata.
Mi accadde di capire che a un mondo fatto di vite che non riescono a incontrarsi perché vanno troppo di corsa, ma credono di tenersi in contatto comunque con una chat e un like, volevo sostituire un mondo di abbracci inattesi e gentilezze da sconosciuti, di persone di cui prendersi cura per un tempo anche molto breve, e che allo stesso modo si prendano cura di te. Che si preoccupino se hai fatto tardi, che condividano con te i loro spazi o il loro cibo. Che ti accolgano e ti sorridano. E tu farai lo stesso. Senza che la cura arrivi a diventare un fardello. Perché poi ognuno sarà responsabile di fare la sua strada.
Mi accadde di capire che volevo vivere di qualcosa di semplice, di talenti, passioni e relazioni umane, senza tutta la sovrastruttura.
Che non sarei andata a cercare il mio posto nel mondo, ma che avrei vissuto di giorno in giorno facendo crescere ciò che di bello ho in me e che non ho ancora coltivato davvero. Che non ci sarebbe stata fretta né ansia di trovare risposte. Che sarei andata piano, seguendo un po’ i miei desideri e un po’ gli eventi con la loro casualità. Senza dimenticare mai chi sono e cosa mi ha resa speciale.
Ho trovato la mia libertà appena ho messo un piede là fuori. E mi sembra che siano passati tre mesi da quando sono andata via, e sono solo dodici giorni.
Brindo con una birra IPA islandese al mio nuovo inizio. Ágætis byrjun, un buon inizio, come recita la canzone dei Sigur Rós.
E ora, eccomi, sono pronta ad andare.