Sull’autostrada, dalle parti di Alicante, c’è un grosso cartello giallo – anzi, due cartelli – con scritte in spagnolo e arabo, e il disegno di un traghetto. Le scritte dicono Almeria, città andalusa e antico porto del califfato di Cordoba, e poi Marruecos, Marocco, e un altro nome che non ricordo. Puntano verso sud. Puntano a terre che tra tre mesi potrebbero essere troppo calde per i miei gusti e a una costa che guarda all’Africa.

L’autobus si ferma a pochi metri dai due cartelli gialli. L’autista scende per sistemare lo specchietto retrovisore destro che il vento arrabbiato di oggi ha mezzo smontato. L’autobus si ferma per farmi leggere bene quei cartelli e ricordarmi che è per questo che oggi sto tornando indietro. Sono passate quattro settimane dal mio arrivo e sembrano pochi giorni. Ci vuole poco ad abituarsi a un ritmo di vita diverso. Ci vuole poco, meno di quello che pensavo, a essere spettinata ogni mattina, a concedersi di mettersi a letto presto e svegliarsi tardi, a finire il correttore per le occhiaie e non comprarne un altro un po’ perché al mega Carrefour – l’unico luogo, o quasi, in cui si va a fare la spesa da queste parti – mi perdo sempre e non riesco a trovarlo, un po’ perché la pelle è un po’ scottata dal sole e non saprei bene che colore di correttore metterci, sicuro tra due-tre settimane la mia pelle sarà ancora diversa, e un po’ perché le occhiaie che ho adesso non sono le stesse che avevo fino a un mese fa, sicuramente non sono occhiaie di stanchezza né di noia, solo occhiaie di vita senza trucco, meno forma e più sostanza.

Sono passate quattro settimane e il van bianco – il Fiorino dei volontari dell’ostello, che non mi azzardo a guidare a parte un pomeriggio di scuola guida fino a Villajoyosa e ritorno, non mi azzardo a guidarlo perché il sedile del guidatore non si muove da dove sta e quindi io arrivo ai pedali a stento e dovrei guidarlo seduta sulla punta del sedile, e non mi pare il caso – il van bianco, dicevo, mi riaccompagna lì dove il viaggio era cominciato, all’orrenda stazione degli autobus dell’orrenda Benidorm, la Miami di Spagna, che di bello ha solo il tramonto ed è costellata di obbrobri edilizi di cinquanta piani, tristissimi night club e alberghi dai nomi lugubri tipo Hotel Alone. Eppure Benidorm è la località turistica più visitata di Spagna, questo me l’ha detto Facebook qualche giorno fa. Gli inglesi vengono qui a svernare, comprano case, si ritirano qui quando hanno messo abbastanza soldi da parte e vengono da settant’anni a riprodurre su questa costa una piccola Inghilterra, però baciata dal sole.

Il cartello giallo con le scritte in arabo mi ricorda il motivo per cui sto tornando a casa per qualche giorno. Perché nessun viaggio è come un altro e qui il viaggio in autostop zaino in spalla non funziona tanto bene. Soprattutto perché gli zaini sono due, visto tutto il materiale da arrampicata che ho portato con me, e il carico supera la metà del mio peso piuma, anche se in questo mese mi sono messa all’ingrasso e ho guadagnato un paio di chili a forza di piatti di pasta da duecento grammi e merende a base di pane e nutella. E poi di autostoppisti non ne ho mai visto uno, e poi per arrivare nei posti sperduti dove voglio andare io, e per fare di un posto sperduto la propria base e muoversi da lì, non va bene il mezzo pubblico e neanche il passaggio offerto da una persona gentile in ostello. E così ho deciso di tornare a casa a prendermi la macchina e fare ritorno qui pronta a fermarmi a ogni curva per scattare una foto, pronta a fermarmi a dormire in tenda nel primo posto di cui m’innamorerò, pronta a fare della mia macchina la mia piccola casa viaggiante, una casa viaggiante piccola come si addice a una persona piccola come me. Pronta a esplorare, uscire dalla zona di comfort della casa-ostello che mi ha accolta quattro settimane fa come una famiglia, una famiglia sgangherata sì, ma una famiglia dove si condivide cibo di dubbio gusto e materiale da arrampicata, dove si prestano scarpette usate, macchinette e forbici per tagliare i capelli alla mohicana e pomate per curare le mani distrutte da troppa scalata. Una casa in cui ho imparato a rispettare i cani molto più dei gatti: il gatto nero di casa se ne fotte della regola che gli animali in casa non possono entrare, se ne sta accoccolato sul divano dove non avrebbe il permesso di stare, e se lo prendo e lo sbatto fuori lui fa finta di sparire, ma più veloce di me fa il giro intorno alla casa, rientra dalla parte opposta e si schiaffa un’altra volta sul divano. Sornione e irriverente. Mi sono sempre stati simpatici, i gatti, per la loro indipendenza, ma oggi mi dà fastidio che non collaborino, che non si sentano parte della famiglia, che boicottino non solo le regole, ma anche il buonsenso. I cani, invece, qui ce ne sono tanti, quasi tutti cani salvati dall’abbandono, e ce ne fosse uno che abbaia, ce ne fosse uno nervoso come i cani di città lasciati sui balconi per il weekend, non micro-cani da borsetta, non cani tenuti in braccio per sopperire alla mancanza di un figlio o di un amore, ma cani e basta, che se ne stanno a bordo piscina a prendere il sole e ti rubano l’incarto della madeleine appena hai finito di mangiarla, scodinzolano davanti alla porta della cucina mentre fai colazione anche se lo sanno che non gli darai da mangiare, ti fanno le feste quando arrivi e poi ti lasciano stare se non vuoi giocare, ti saltano addosso e ti piantano le unghie nelle cosce per guardare fuori dal finestrino del van bianco durante una missione in campagna di prima mattina.

Sono stata bene in questo luogo che è asilo per chi insegue il sole e la roccia e la garanzia di un bel tempo stabile almeno sei mesi all’anno. Per chi nel proprio paese freddo lavora solo in primavera-estate, per chi il lavoro l’ha lasciato o perso e inganna il tempo in attesa di una svolta che si presenterà sotto forma di telefonata, mail, incontro casuale o illuminazione, per chi, “incastrato” da un contratto a tempo indeterminato piombatogli addosso quando stava per mollare tutto, lavora a distanza col proprio computer saltando da una zona di arrampicata all’altra in varie parti del mondo. Per giovani padri in fuga dai doveri familiari per una settimana o un weekend lungo, giovani padri per cui l’arrampicata dopo la nascita del pargolo è diventata una rarità, e che si tengono in forma facendo esercizi di sollevamento bebè fino a che il piccolo ovviamente s’incazza e gli vomita addosso l’ultima poppata. Sono stata bene in questa gabbia di matti in cui io sembro persino un po’ meno matta di tanti altri, un posto in cui io sono la secchiona che passa i pomeriggi a studiare spagnolo e che i post sulla pagina Facebook dell’ostello li scrive in modo fin troppo professionale. Magari serviranno ad attrarre nuovi clienti, ma giustamente i vecchi affezionati frequentatori del posto e della pagina non riconosceranno quei post troppo curati, ordinati e formali. In fondo, io sono ancora la stessa che per sette anni e mezzo ha lavorato come raccontastorie pignola e macchina da guerra davanti a un computer di cui mi stupisco di ricordare ancora perfettamente password che al momento non mi servono a nulla.

Come non riconosceranno, certi vecchi frequentatori dell’ostello, la cucina del campeggio che insieme a un “collega” inglese – inglese come tutti nell’ostello – ho rimesso a nuovo in tre giorni di straordinari e schiena spezzata. Che soddisfazione, ma anche che dispiacere nel sentirsi dire dall’unico avventore davvero antipatico (che non leva mai le tende, per altro) che ci è rimasto male, a tornare e trovare la cucina diventata così bella, pulita, imbiancata e ordinata. Perché non è più la stessa. Lo stesso avventore che non si fa mai i fatti suoi e che ha osato commentare, quasi col naso nella ciotola del mio yogurt con cereali e marmellata, che effettivamente faccio una colazione un po’ abbondante, per essere piccola come sono. E che ha avuto la faccia tosta, passando davanti alla nostra teglia di tartiflette cucinata da sapienti mani francesi, di fermarsi, prendere una sedia e unirsi a noi per cena senza neanche chiedere il permesso.

Nell’ostello per arrampicatori non è strano arrivare da soli e trovare sul posto, senza troppa fatica, un compagno o compagni con cui scalare. Non è strano, anzi l’idea è proprio questa, vieni qui per trovare compagnia e progetti di scalata da condividere e per sentirti subito a casa. E non è un caso che solo questo signore antipatico non l’abbia mai visto andare a scalare con qualcuno, sta lì ingrugnito e fa battute in attesa di una svolta che con il carattere che si ritrova non capiterà mai, e ieri mi ha pure rubato le fette di salame che avevo tagliato per metterle nel panino.

Non so come sono finita a parlare di questo strano personaggio, l’unico fuori posto in un piccolo mondo tassativamente anglofono. L’ostello è gestito e frequentato da britannici o al massimo da qualche americano e canadese. Ogni tanto si affaccia una coppia di norvegesi o un raro tedesco, o meglio una stranissima coppia mamma-figlio tedeschi, figlio sui trenta-quarant’anni e mamma sui sessanta-settanta, che non so se di giorno gli faccia sicura in falesia, ma di certo la sera cucina per lui e non parla con nessuno – io ci ho provato, a salutare in tedesco, nel tentativo di instaurare una specie di solidarietà femminile tra le due uniche donne rimaste in ostello, ma lei non è parsa interessata a conversare nella sua lingua madre, e forse è meglio così, perché già adesso mi scoppia la testa a studiare spagnolo al computer tre-quattro ore al giorno, parlare regolarmente in un inglese molto più sguaiato di quello che usavo al lavoro, e a sprazzi chattare o telefonare in italiano. L’altra sera sono finita con un gruppo di gente dell’ostello a mangiare tapas e bere birra in un locale nei vicoli del paese, finalmente un locale frequentato da gente del posto e non da turisti inglesi. Ovviamente al mio tavolo ero l’unica non britannica, e ovviamente anche l’unica donna e l’unica che scala sui sesti e non sui settimi gradi, credo, e ho approfittato del menu in spagnolo per dire alla cameriera che sto studiando la lingua e che la pregavo di non sforzarsi di tradurre il menu per i miei commensali, ma di usare me per fare da tramite, così mi esercito. È stato divertente e me la sono cavata, ma a fine serata ho avuto l’impressione che la cameriera forse parlava benissimo inglese ma si è prestata al mio gioco di traduzione per regalarmi un angolo di Spagna all’infuori del corso online che ho sul computer, in questa strana enclave in cui al supermercato si vendono tè dello Yorkshire e marmellata originale inglese, preparato per brownies e forse anche haggis in lattina, e ovviamente Kettle chips, Maltesers e tutto il meglio del junk food d’oltremanica.

Insomma, nell’ultimo mese non ho poi sentito tanto la differenza rispetto all’ambiente in cui ho lavorato negli ultimi sette anni e mezzo. Da un’enclave britannica all’altra, solo che qui c’è più sole e non piove mai, tranne stamattina, solo che io dormivo profondamente e mi sono svegliata solo quando la pioggia era finita e un vento su cui non la puoi avere vinta ha iniziato a sbattere le porte dell’ostello e portare via bidoni dell’immondizia, bucati stesi, intere pile di sedie di plastica rosse della birra Estrella e cartelli per la raccolta differenziata che avevo affisso solo pochi giorni fa. La porta dell’ostello, non quella principale ma quella che usano tutti, quella della cucina grande, non si chiude proprio, ma di solito non è un problema, o al massimo è un problema perché non puoi chiudere fuori il gatto, e invece oggi la porta non si chiude e non si dà pace, e quando il mio “collega” Martin la apre per entrare, un altro ospite da dentro tenta di richiudergliela in faccia, salvo poi scusarsi: “mi dispiace, pensavo fossi il vento”. E appena ci allontaniamo un attimo distratti dal profumo della stufa a legna, dall’arrivo di un ospite più importante di altri, dall’attesa della partita di rugby e dalle chiacchiere fitte di una domenica mattina meno pigra e più viva di altre, il vento apre la porta e prende a soffiare dentro la casa con tutto il fiato che ha, fino a scardinare persino un’anta dei mobili blu della cucina. Il vento stamattina spazza tutta la Spagna e porta neve, mi telefona emozionata come una bambina la mia nuova amica francese, autrice della teglia di cui sopra, che intanto si è spostata più a nord e stamattina si è svegliata con il camper immerso nella neve.

Il vento, spero che il vento soffi a mio favore, oggi che torno fugacemente verso casa per rimediare una razione di abbracci e un po’ di pezzi mancanti, e soprattutto spero che soffi a mio favore quando tra qualche giorno tornerò indietro a bordo della mia futura piccola casa viaggiante, pronta a esplorare una terra che nella mia immaginazione somiglia molto più a casa mia rispetto alla Spagna che ho incontrato in questo mese. Una terra a volte brulla, a volte gialla di campi, a volte molto calda, a volte spazzata dal vento, una terra di forti sentimenti e colori accesi, in cui sei a casa e non sei mai solo. Sono pronta a partire, stavolta davvero, sulle tracce di cartelli gialli che mi cattureranno e delle strade che sceglieranno di farsi percorrere (strade, non autostrade, non perché non ho i soldi per il pedaggio ma perché così posso viaggiare lenta ed esplorare piano, attraversare paesi, raccogliere autostoppisti se ne incontrerò, fermarmi per un caffè che non sia in un autogrill, accostare quando è l’ora del tramonto). Sono pronta a partire, ora che ho un bagaglio di mille parole di una lingua nuova, verbi che tre settimane fa non sapevo coniugare, ora che ho imparato, forse, a non fare programmi e a non avere paura del salto che, in fondo, ho già fatto un sacco di tempo fa, in un giorno che non ricordo, il giorno in cui ho deciso di partire.

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