“Gira appena possibile. Gira appena possibile”, mi intima, con la calma di un rapinatore svogliato, il navigatore offline e per ora ancora gratuito che ho installato sul tablet. Doveva essere gratuito per due settimane e invece è quasi un mese che funziona senza pagamento e senza proteste. Mi aspetto che smetta di funzionare all’improvviso mentre mi trovo in un posto sperduto, senza indicazioni e senza accesso a internet. In ogni caso, appena ne avrò occasione avrei voglia di comprare un bellissimo e dettagliatissimo atlante stradale, un oggetto d’altri tempi, il cui desiderio in me si alimenta da quando, l’estate scorsa, facevo l’autostop con in tasca una piccola cartina stradale strappata da qualche dépliant turistico. Il problema è che l’atlante stradale invecchia più in fretta di un navigatore, e non ti parla mentre guidi, quindi ti costringe a fermarti per consultarlo. Ma tanto io mi fermo lo stesso per fare una foto in ogni piazzola a bordo strada, e quindi non fa niente.
“Gira appena possibile”, va bene, ma non ho capito qual è il suo piano, del navigatore intendo, perché questa strada di campagna prosegue dritta senza possibilità di svolta, è uno sterrato per nulla sconnesso e la guida è agevole. Più agevole di quanto non lo sia su tante strade asfaltate della zona, ripide come un precipizio o progettate praticamente a “V”, ovvero una discesa seguita immediatamente da una salita senza un tratto in piano in mezzo (quindi se non stai attento rischi di sbattere col davanti della macchina alla salita che comincia quando ancora non hai finito di scendere), oppure una salita seguita immediatamente da una discesa senza un tratto in piano in mezzo (quindi non vedi se arriva una macchina nella direzione opposta, e hai la sensazione che la strada si interromperà di botto appena arrivi in cima alla salita). Il secondo tipo in Islanda si chiama Blindhæd e gli islandesi lo segnalano con un apposito cartello, mentre qui devi prendere le misure e andare pianissimo, pena la prematura distruzione della tua macchina.
“Gira appena possibile”, ma poiché io continuo a procedere sulla mia strada, il navigatore, seccato dalla mia disobbedienza, cambia tattica e annuncia: “tra settecento metri, fai una inversione a U”. Peccato che a settecento metri di fare una inversione a U non se ne parli, la strada è stretta e non c’è nessuna rientranza, cancello o spazio adatto allo scopo. Vado ancora avanti e finalmente una vecchissima Renault 4 rossa parcheggiata perfettamente in mezzo alla stradina mi costringe a fermarmi. Il proprietario arriva quasi di corsa dall’uliveto per spostarla. “No tengo prisa”, gli dico, non ho fretta, tanto non so nemmeno dove sto andando. Stavo cercando le falesie di El Chorro, uno dei posti più famosi per arrampicare in Spagna. Così per dare un’occhiata, per ora, visto che mi trovo da queste parti e ho una giornata libera. Ho messo nel navigatore le coordinate GPS di una delle falesie, e invece poi ho deciso di disobbedirgli e seguire la stradina che porta dritto verso le grandi pareti alla mia destra, che esercitano la loro attrazione su di me come una calamita, anche se non si vede nessuno arrampicare, e soprattutto, evidentemente, da qui alle pareti non si arriva.
Non sono finita in una strada privata, però non passa nessuno e il signore della R4 rossa e il suo amico hanno giustamente e tranquillamente lasciato la macchina in mezzo alla strada mentre girano per l’uliveto, probabilmente in attesa del pranzo della domenica che sembra in preparazione nella casa poco più in là. Mi faccio aiutare a fare inversione e chiedo al signore dov’è che ho “sbagliato” strada, così metto in pratica la lezione del corso di spagnolo sulle indicazioni stradali, che a dire la verità mi ha lasciato più di qualche lacuna, anche se il test di fine capitolo è sempre troppo generoso con me e finisco sempre per prendere “eccellente”.
Il proprietario della R4 rossa ha tanto tempo da perdere da seguirmi con la macchina fino al paese per accertarsi che prenda la strada giusta. Un po’ è gentilezza (quasi nessuno in Spagna finora mi ha risposto con una specie di “arrangiati!” a una mia richiesta di informazioni o aiuto), un po’ è una diversa concezione del tempo. Qui sembra esserci sempre tempo, le ore sembrano scorrere in modo diverso. A Roma, al Pigneto, c’è sempre uno che si è perso, con la macchina o a piedi, tra i sensi unici e le strade che si interrompono a tradimento e riprendono qualche isolato più in là, e mi piaceva, se ero in giro a piedi, accompagnare le persone che mi chiedevano indicazioni per strada, come una deviazione dalla fretta costante mia e altrui. Visto a piedi, ogni tanto, il Pigneto era un posto dove rallentare il passo.
Comunque eccomi qui. Ritrovo la strada giusta, credo, e costeggio una distesa di roccia che però non porta molte tracce di spit e catene. Unico segno di vita arrampicatoria, un paio di furgoni da climber parcheggiati. Ora la strada, che è sterrata peggio di quella di prima, passa accanto, anzi sotto, direi, a una parete rossa strapiombante, ma non è spittata neanche quella. E mi sa che ho sbagliato strada un’altra volta. Ma tanto è una gita e non mi corre dietro nessuno. Continuo a ignorare il mio povero navigatore, che, temo, tra poco diventerà a pagamento per il solo dispiacere di essere così trascurato.
Al terzo tentativo sono sicura di essere sulla strada giusta, anche se non c’è più roccia, solo colline come disegnate con file di alberi disposti spesso in modo geometrico e tre cipressi in cima. L’Andalusia, qui, somiglia alla Toscana, e somiglia alle parole di Daniele Silvestri in una canzone uscita da pochi giorni, che pare perfetta per accompagnarmi tra queste curve:
“Visto dall’oblò di questo aereo
il mondo sembra ben organizzato
dell’uomo cogli l’operato serio
il tratto netto, duro ed ordinato.
Reticoli di campi cesellati
di cui non percepisci mai l’arsura
e specchi d’acqua poi, come diamanti
che l’uomo ha regalato alla natura
forse per darle una struttura…”
E ha un po’ l’aria toscana anche la finca (da queste parti le tenute di campagna si chiamano così) convertita in ostello per arrampicatori di cui mi hanno parlato in tanti. Che pace! Questo posto profuma di buono. Sono le due di pomeriggio di una domenica di sole e stanno tutti a scalare. Chi l’ha detto che gli arrampicatori devono necessariamente alloggiare in un posto arrangiato e spartano, dove ogni oggetto, ogni mobile, ogni asciugamani e ogni strofinaccio sembra essere capitato lì per caso? Ora non c’è nessuno per accompagnarmi a fare un giro di questo posto, aprire porte e dare un’occhiata come si deve, ma tornerò, sicuro tornerò, magari per fermarmi per un po’.
Il “difetto” di un posto bello come questo, quando ci vivi per un po’, è che si sta così bene che potresti non sentirlo proprio, il bisogno di andare a scalare, e che l’arrampicata non è più una fuga da uno stress che ho dimenticato. Sono in Spagna da due mesi e, nonostante l’abbondanza di pareti a mia disposizione, non sento più l’esigenza di arrampicare. Ho voglia di arrampicare solo per piacere, senza tutto quel fomento di prima. Ho voglia di arrampicare per desiderio, e non per distrazione da qualcosa che mi fa star male.
Intanto ho trovato le pareti giuste, quelle su cui avevo puntato il mio GPS. Non sono male, ma non sono strepitose come immaginavo dai racconti. Non ho mai visto una foto delle pareti di El Chorro nel loro insieme. Mi piace la sorpresa.
È domenica e in falesia c’è una folla di arrampicatori spagnoli. Li riconosci perché sono più chiassosi dei nordici che popolano le falesie spagnole anche nei giorni feriali. E perché i climbers spagnoli hanno tutti invariabilmente un cane. Mi incammino lungo la parete e all’improvviso, dietro l’angolo, mi si schiude la vista su El Chorro. Un lago artificiale chiuso da una diga ai piedi di immense pareti di roccia. Quelle che stavo guardando prima di affacciarmi qui erano delle paretine da niente, al confronto. Che mare di roccia! Raramente ho visto qualcosa di simile. Riprendo la macchina e scendo giù fino al paese, investita da una folla di turisti in gita domenicale, pullman, mega-ristorante strapieno per pranzo, e un odore quasi nauseabondo, putrido, che sembra provenire dai bagni pubblici, e invece proviene dal lago. Il paese di El Chorro non è un paese, ma un laconico agglomerato di poche strutture turistiche e forse neanche una casa. Decisamente la parte peggiore di questo paradiso per scalatori.
In fondo, dall’altra parte del lago rispetto alla diga, due pareti di roccia formano come un sipario socchiuso, che lascia uno spiraglio aperto a formare una gola. Una linea quasi orizzontale taglia la parete a cento metri d’altezza, s’insinua nella gola e spunta fuori dall’altra parte. Un ponticello pedonale collega le due pareti come una linea sospesa nel vuoto. Lungo tutto il percorso, decine di puntini colorati, i turisti che percorrono il sentiero e la passerella. Si chiama Caminito del Rey e viene “venduto” come il sentiero più pericoloso al mondo. In realtà adesso così pericoloso non lo è più, e a vederlo da qui sembrerebbe una passeggiata turistica (e affollata!) in un paesaggio incredibile.
La fama del posto si deve alla morte di alcuni escursionisti una quindicina d’anni fa, quando il percorso era in condizioni fatiscenti. In seguito a questi incidenti il sentiero, costruito a inizio Novecento per facilitare il passaggio degli operai che lavoravano alla diga, era stato chiuso e ristrutturato. Ora è un anno che ha riaperto, ma di visitarlo non se ne parla. Nel senso che visitarlo sarebbe gratis, basterebbe prenotare su un apposito sito. La “mafia” dei ristoranti di El Chorro, però, gestisce la cosa a modo suo. Ogni mese, quando si aprono le prenotazioni sul sito, i ristoratori bloccano tutti i posti disponibili, e li “regalano” ai clienti del ristorante includendoli in un pacchetto-pranzo a menu fisso a 25 euro, cifra decisamente esosa per queste parti. Ovvero: vai a fare il Caminito e poi vieni a mangiare da me. Ho controllato sul sito perché mi sembrava difficile crederlo, invece è così, e per tutto il mese di marzo, anche se dovessi restare da queste parti, di fare il Caminito non se ne parla.
Mi godo la vista da qui e poi fuggo dalle orde di turisti reduci dalla passeggiata. Due curve più in là c’è un bar-ristorante che si chiama provvidenzialmente La Ermita, “l’eremo”. “Ovviamente” nel parcheggio c’è anche una paretina artificiale di arrampicata 🙂 Mi piace quest’eremo, c’è il fuoco acceso nel camino sulla terrazza coperta, non ci sono le orde di turisti (evidentemente questo locale non partecipa alla mafia del Caminito) e soprattutto una caña e una tapa, ovvero una birra piccola con un piattino di salumi, costano in tutto un euro e cinquanta, ovvero l’equivalente di venti pranzi + biglietto del Caminito del Rey. Me lo posso permettere 🙂
Insomma, mi accontento di poco. A casa della famiglia che mi sta ospitando mi aspetterà una cena da leccarmi i baffi che non ho. Intanto basta non fermarsi, basta girare l’angolo, continuare a perdersi inseguendo pareti di roccia dimenticando le indicazioni del navigatore. Il posto che mi piace è lì, dietro la prossima curva. Solo che in effetti mi è venuta fame sul serio, per stavolta torno a casa 🙂
Mi è venuta voglia di andarci!
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mi è venuta voglia di partire!
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