L’aspetto più incredibile del fatto che è arrivato settembre è che l’impalcatura è ancora lì. L’impalcatura è quella sui due fianchi della grande casa della famiglia E., che per molte generazioni ha fatto la storia di questo villaggio. Quando sono arrivata qui non sapevo nulla di quella casa. Poi gli ospiti hanno iniziato a chiedermi: è ancora vivo il signor E.? E io non sapevo di chi stessero parlando. Le settimane scorrevano e io, nella mia minuscola reception, ero troppo impegnata a imparare mille compiti amministrativi e studiare la soluzione di molti problemi logistici per domandarmi chi fosse questo signore di cui mi si chiedevano notizie.
Un giorno un signore norvegese, Tore, non un diminutivo di Salvatore ovviamente, ha telefonato per prenotare una notte in un rorbu, ovvero una delle ex case dei pescatori che affittiamo in questo villaggio e in quello accanto. Dopo la solita solfa, desværre, jeg snakker ikke norsk, mi scusi, non parlo norvegese, il signore mi ha chiesto da dove venissi e, mentre prendevo i dati per la prenotazione, mi ha raccontato di essere stato qui nel 1970, decenni prima che il turismo raggiungesse queste isole, e in un’epoca in cui la pesca era l’unico, pilastro dell’economia e della vita del villaggio. Per fortuna il turismo non mi pare aver snaturato, da questo punto di vista, quello che resta anche oggi un vero villaggio di pescatori, dove tuttora pescare con la barca o con la lenza è un’attività che per lavoro o per diletto praticano più o meno tutti, turisti inclusi. Non è così in alcuni altri villaggi di pescatori di cui rimane solo la facciata turistica, e dove in alta stagione si paga addirittura l’ingresso per il solo passeggiare tra i rorbu convertiti in alloggi (tutt’altro che spartani, mi dicono) per turisti.
Il signor Tore mi racconta al telefono che quando era qui, quarantasei anni fa, le cose erano molto diverse. Quando ci vediamo ti racconto, mi dice, anche perché intanto la reception è piena di gente e appena riattacco il telefono squillerà un’altra volta. Purtroppo, il giorno del suo arrivo, Tore e famiglia si sono presentati in reception tardissimo, e la mattina dopo dovevano andare via abbastanza di corsa. Per farmi raccontare un po’ la storia del villaggio e del signor E. (che è morto due anni fa, l’ho letto su internet però, perché qui non avevo avuto il tempo di domandarlo a nessuno) mi sono dovuta infilare in macchina di Tore e famiglia con la scusa di accompagnarli al rorbu. Il tempo era tiranno e solo in questi ultimi giorni, più tranquilli, ho avuto modo di conoscere un po’ di più la storia della famiglia E., storia di commercio di pesce su larga scala e storia di complicità con l’occupazione nazista nella seconda guerra mondiale. Ma so ancora ben poco.
Quello che so, però, è che sono passati quattro mesi e i lavori sul tetto della grande casa non sono ancora finiti. Casa mia si trova di fianco all’impalcatura, accanto alla famosa e storica panetteria del villaggio, e così ogni tanto la mattina quando mi sveglio sento il rumore dei lavori. Ogni tanto, e non troppo presto, perché gli operai lavorano forse una-due volte a settimana, sicuramente iniziando non prima delle nove. Stanno rifacendo il tetto, e le grandi tegole di pietra che andranno a ricoprirlo sono rimaste impilate per tutta l’estate, insieme ad altri materiali da costruzione, vicino all’impalcatura e soprattutto vicino alla panetteria, che è polo di attrazione dei turisti al centro del villaggio. Per tutta l’estate, io e i miei coinquilini abbiamo assistito allo spettacolo esilarante dei turisti che, in visita al villaggio per un’ora, di passaggio in crociera o in pullman o in camper, fotografavano le tegole impilate vicino alla panetteria come fossero manufatti pregiati e storici e non semplici materiali da costruzione. Fa eccezione (nel senso che comprendo il loro interesse) la meravigliosa coppia di artisti californiani che sono qui da quasi una settimana, e che in una delle nostre tante piacevoli conversazioni mi hanno illustrato il loro interesse e la loro curiosità da addetti ai lavori per il modo in cui le intemperie hanno forgiato e modificato quelle pile di tegole grigie.
Non so chi stia facendo i lavori adesso, ma evidentemente non hanno avuto voglia di approfittare del bel tempo per portare l’opera a compimento, e adesso che il tempo è molto più inclemente non mi sembra si stiano ammazzando per completarla. Quando sono arrivata, a maggio, i lavori li stavano facendo due operai lituani che abitavano sopra la panetteria e che la sera s’intrufolavano nella casa dove adesso abito per usare di nascosto la cucina. Questo e altri comportamenti hanno fatto arrabbiare più di qualcuno e così i due operai sono stati mandati via e sostituiti. Almeno, però, loro oltre a sfondarsi d’alcol lavoravano, o almeno così mi pareva.
Sono passati quattro mesi e l’impalcatura è ancora lì. Non ho avuto tempo di scoprire in dettaglio la storia del signor E., ma ho avuto tempo d’imparare come si dice “impalcatura” e “la casa dove stanno facendo i lavori”, in un po’ di lingue. Due degli edifici dell’ostello si trovano alle spalle della grande casa, e un milione di volte nel corso della stagione, terminato il check-in, per spiegare agli ospiti, senza lasciare la reception incustodita, come arrivare alla loro stanza, ho chiesto loro di seguirmi fino a un angolo della piazza del villaggio da cui tengo d’occhio la reception e al contempo posso mostrare, dietro l’impalcatura, l’edificio bianco e blu dell’ostello. Un milione di volte ho domandato se annuissero o se avessero davvero capito. Mi sono fatta insegnare a dire hinten dem Gerüst e derrière de la maison avec les travaux nel mio imbranato tedesco e nel mio ancor più imbranato francese. Mi accorgo ora che in spagnolo, lingua che pure ho parlato costantemente in questi mesi, queste parole non le ho imparate, perché mi sa che per qualche strana coincidenza pochissimi dei nostri ospiti spagnoli hanno alloggiato proprio laggiù, in gran parte stavano invece dall’altra parte, negli edifici che affacciano sul mare. Giuro che è stata solo una coincidenza e che non è perché gli spagnoli hanno una predilezione per gli alloggi sul mare.
E un milione di volte ho ricevuto la domanda: possiamo parcheggiare davanti all’ostello? E ho dovuto rispondere di no, che lo vedi, c’è un’impalcatura nella stradina che porta all’ostello, non si passa, la macchina la puoi lasciare nell’angolo in ombra sotto il poster del museo del villaggio, oppure davanti al café, o qui vicino alla reception. Una sera, tanto tempo fa, c’erano ancora gli europei di calcio, ho ricevuto una richiesta tra le più complicate. Quattro polacchi con un’auto elettrica che dovevano parcheggiare vicino all’ostello per attaccarsi alla corrente e caricare le batterie per il giorno dopo. La corrente ce l’abbiamo, ma il problema era sempre quello, arrivare con la macchina là dove l’impalcatura blocca il passaggio. Alla fine ho mobilitato uno dei miei coinquilini che ha trovato il modo di far fare al cavo un giro un po’ complicato per raggiungere una presa di corrente, per così dire, in prestito (ma non ditelo a nessuno!). Certo, venire in cerca di postazioni per caricare le batterie dell’auto elettrica in un posto così sperduto è stato un gesto alquanto azzardato da parte loro. Di quella sera ricordo la soddisfazione di essere riuscita a trovare una soluzione a una richiesta impossibile. Paradossalmente non sono riuscita ad aiutare gli stessi ospiti quando sono tornati, qualche giorno dopo, chiedendo una casa con la tv per vedere gli europei. Il mio capo non aveva ancora riparato il televisore nell’ostello, e ho dovuto mandarli ad alloggiare da qualcun altro.
Questi quattro mesi sono passati così in fretta che ricordi come questo della macchina elettrica sono già sepolti in un angolo della mia memoria e riemergono solo in fondo a una interminabile catena di pensieri. Questa è probabilmente l’ultima mattina in cui dovrò ripetere quarantacinque volte come arrivare al punto di partenza dell’escursione per la montagna qui sopra al villaggio, e come andare a prendere la barca per andare alle spiagge. Oggi l’ostello e le case si svuotano del tutto, tutti gli ospiti “normali” vanno via per lasciare il posto a centodue studenti in gita che saranno qui per il fine settimana, con tanto di gara a chi cucina il baccalà migliore. Domenica andranno via gli studenti e a breve vado via anche io. Negli ultimi giorni il numero di presenze in ostello e nelle case è letteralmente crollato con l’arrivo improvviso della bassa stagione. E finalmente questo vuol dire che se arrivi qui, e ti piace il posto, e fuori il tempo fa schifo, puoi fermarti anche tutta la settimana, puoi concederti il lusso di venire ogni mattina in reception a dirmi: mi fermo anche stasera, si sta così bene, e magari visto che piove resto tutto il giorno al calduccio a non fare niente. È arrivato settembre e con lui i viaggiatori “lenti” che si fermano qui da me in reception anche per mezza giornata e ascoltano pazienti la versione lunga del racconto di come sono finita qui. L’ho ripetuto mille volte, il racconto, a chi me l’ha domandato in questi mesi ma, un po’ perché ero sempre di corsa e un po’ perché non mi andava, raccontavo sempre una storia a metà.
Mi piace, settembre. Mi ha portato finalmente giorni di lunghe chiacchierate, tazze di tè in reception e cene nella cucina dell’ostello con pesce appena pescato a costo di ferite alla testa (non mia). Ma questa è un’altra storia.