Non so cos’è il coraggio
se prendere e mollare tutto
se scegliere la fuga
o affrontare questa realtà
difficile da interpretare
ma bella da esplorare
provare a immaginare come sarò quando avrò attraversato il mare
portato questo carico importante a destinazione
dove sarò al riparo dal prossimo monsone?
Chiedetemi perché sono qui.
Perché questa città è bellissima, perché amo il lago che in quella memorabile domenica di ottobre era affollato di gente e di sole e adesso è ancora più bello gelato e con i tronchi incastonati nello strato sottile di ghiaccio che le turiste incaute provano anche a calpestare.
Perché in questa città la macchina non mi serve, non serve a nessuno, la bici basta praticamente per qualunque cosa, e in più per qualche settimana le strade sono state spesso pericolosamente ghiacciate, così ghiacciate che a volte scivolano anche i pedoni, e così la mia macchina è rimasta ferma così a lungo che qualche giorno fa è dovuto intervenire il meccanico per rianimarla (sapevo che sarebbe successo, ma avevo troppa paura del ghiaccio per portare la macchina a fare un giro).
Perché qualche congiuntura astrale a me ignota ha riunito qui, in una piccola città, svariate dozzine di persone come me, come in un grande ostello a cielo aperto che ospita, senza fare troppe domande, oltre a molti rifugiati veri anche tanti che come me sono finiti qui in cerca di una nuova vita o di una nuova strada. E con loro mi sento davvero a casa.
Perché questa città è stata dal primo momento la coperta che mi ha avvolta, la coperta di cui avevo bisogno, che mi ha permesso di fermarmi a riposare, a leggere, a pensare, a imparare.
Ma era troppo bello e troppo facile. Il paradiso non esiste, avevo scritto qualche mese fa, lo scrivevo proprio la prima volta che mettevo piede in questa città e che avevo l’impressione, che il tempo ha poi confermato, che questo fosse inaspettatamente il posto giusto per fermarsi.
Il paradiso non esiste, perché ci pensiamo noi umani a rovinare tutto.
Io sono diventata, anzi sono sempre stata, direbbe un trio di amici tra i più cari che ho lasciato a Roma, una ragazzina dai facili e sfrenati entusiasmi, dal sorriso spesso più grande e sincero che si possa immaginare, una a cui piace fare felici gli altri con una cena o un pacco di biscotti o un’informazione o un contatto o una telefonata. La ragazzina che racconta, senza nascondere nulla, chi sono e che strada storta ho fatto per arrivare qui. E ciò in cui credo e per cui ho lasciato ciò che avevo, e ciò in cui non credo più e a cui non voglio tornare. Ho gli occhi trasparenti che raccontano ogni cosa, sarebbe inutile fingere di essere un’altra, e comunque non mi va e non ne sono capace.
Non riesco a essere un’altra. Non riesco a presentarmi come quella che non sono, a presentarmi nel modo giusto per ottenere un lavoro che non voglio.
E no, non ce la faccio a non tradire la mia rabbia contro un datore di lavoro che mi dice che “se prendiamo una multa è colpa dei rifugiati che sono troppi, e il comune deve fare cassa per sfamarli”. Non gli dico niente ma mi si legge sicuramente negli occhi quello che provo. E dopo il lavoro alla fine è il mio amico rifugiato che viene dal Rojava, il Kurdistan siriano, a dovermi consolare per l’incazzatura. E dire che io l’avevo chiamato per dirgli mi dispiace che c’è questa gente in giro, io sarò sempre dalla tua parte. Ma lui a certe cose sembra molto più impermeabile di me. Forse semplicemente perché altro che i miei viaggi, lui sì che ne ha dovuta fare di strada. E oggi, davanti a un piatto di orecchiette al pomodoro venute direttamente dalla mia Puglia, mi diceva: sai, la Germania è un po’ come un’azienda. Ti offre opportunità, formazione, welfare, strumenti di integrazione. Sta a te saperle coglierle, le opportunità e se le cogli, ripagherai in tasse quello che questo paese ti ha dato quando sei arrivato.
Sono felice di vederlo sereno ed è questa una delle ragioni per cui voglio vivere qui. Sabato scorso sono andata alla prima giornata di un corso gratuito che il comune, tramite una ONG, offre a chi si vuole formare per fare volontariato con i rifugiati e i richiedenti asilo. Ho pensato al comune di Roma che sgombera il Baobab e fa dormire i migranti transitanti per strada, anzi li caccia brutalmente nel cuore della notte anche dalle tendopoli di fortuna. Oggi io e il mio amico curdo abbiamo telefonato ad alcuni uffici comunali per avere informazioni sulle attività di volontariato e sulle organizzazioni che si occupano di richiedenti asilo e rifugiati qui in città. A parte un unico scostante e burocratico diniego, abbiamo ricevuto risposte dettagliatissime e cortesi e un quadro di attività riconosciute e supportate dalle autorità locali così vasto e ramificato come a Roma te lo puoi scordare (anche se sarei ben lieta di essere smentita).
Ma al di là di questa che è una gran bella notizia, stavo dicendo un’altra cosa, ovvero, che il paradiso non esiste, o per lo meno non esiste come ce lo immaginiamo quando sogniamo di andar via dalla nostra grigia realtà.
Il paradiso non esiste e la mia piccola casa non è più il rifugio che era, dal giorno in cui la mia vicina di casa, per altro giovane e per altro straniera come me, anziché bussare alla mia porta e parlarmi di persona, ha pensato bene di farmi minacciare di sfratto direttamente dai proprietari di casa, senza passare dal via, perché per tre sere di seguito, nelle vacanze di natale, ho avuto (pochi) ospiti a casa che si sono trattenuti anche dopo le 22, orario in cui tassativamente in Germania devi fare assoluto silenzio a casa (ma io non lo sapevo). Tranne una sera in cui oggettivamente un’amica rideva sguaiata ancora alle undici di sera, orario in cui ce ne siamo resi conto e abbiamo tutti abbassato la voce, le altre due sere qui eravamo solo in due o tre e parlavamo a voce normale o forse anche più bassa di come faccio quando parlo con mia mamma su Skype, il che di solito avviene la sera tardi (e quindi potrebbe infrangere la legge).
Con i miei ospiti parlavamo a voce normale come parleresti con qualcuno con cui vivi, il che sarebbe perfettamente consentito dalla legge, ovvio, solo che sul mio pianerottolo c’è solo gente che vive sola, e la ragazza della porta accanto, mi dicono, è una persona un po’ triste. Che poi il silenzio notturno per quanto mi riguarda è regolato dal buonsenso e non dalla legge, e poi io di solito la sera esco e quando sono a casa sono una persona tranquilla e silenziosa. E però la legge non ammette ignoranza, ma io con questo concetto faccio un po’ di fatica ultimamente, devo ammettere, avendo cambiato tre paesi in un anno e avendo dovuto imparare in un anno come funziona un gran numero di norme in ciascuno di questi paesi. Perché siamo in Europa, sì, ma fino a un certo punto è tutto uguale. Anche i segnali stradali non sono esattamente gli stessi, ragion per cui mi metto le mani nei capelli quando cerco di capire dov’è che mi è consentito parcheggiare, e dove no. Un’altra ragione per cui la macchina non la sposto mai 🙂
Per ovviare alla minaccia di sfratto ho dovuto appendere alla mia cassetta della posta un biglietto di scuse urbi et orbi scritto a mano che ha intenerito molti altri condomini, che si sono detti tutt’altro che infastiditi da me e dalle mie presunte “feste”. Vero, una festa a casa l’avevo organizzata solo la sera di capodanno, ma quella è l’unica notte in cui anche qui in Germania tutto è concesso, e poi tra l’altro la vicina a quanto pare quella volta non c’era.
Al piano di sotto abita un uomo che avrà pochi anni più di me (o forse semplicemente se li porta male) e che incontro sempre nel cortile quando esce a fumare e intanto si immerge nel suo cellulare. Forse lui e sua moglie sono l’unica coppia di questo edificio composto da dieci monolocali. Sul citofono hanno le loro iniziali, il cognome di uno dei due, e un cuore. La moglie non l’ho mai vista a dire il vero. O forse non ho capito chi è. Lui però è davvero gentile e dopo aver visto il biglietto di scuse è riemerso dal cellulare e dalla sigaretta per dirmi che gli dispiace tanto e che non devo farmi nessun problema, anzi, che devo fare in modo di stare bene a casa mia, e se voglio invitare qualcuno a cena, devo assolutamente farlo. Dopo qualche giorno mi ha fermata di nuovo in cortile per comunicarmi che sua moglie (tuttora ignota) mi manda a dire che se ho bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, posso bussare alla loro porta quando voglio. Insomma, male chiama bene, e dopo aver sputato fuori dal suo ventre una vicina di casa cattiva, gelida (ho bussato io alla sua porta per parlarle e mi ha detto lapidaria: in questo palazzo non si usa ricevere visite), la palazzina mi ha restituito due, anzi tre vicini di casa buoni e gentili, compresa la ragazza di origine kosovara che abita due porte più in là e che mi ha chiesto di aiutarla quando il corriere doveva ritirare un pacco e lei non era in casa. E queste persone “buone” non sarebbero venute allo scoperto se non fosse stato per il mio tenero bigliettino di scuse. Se mi fossi fatta i fatti miei e avessi semplicemente smesso di invitare amici a casa e mi fossi masticata dentro la mia tristezza.
Il resto della storia non mi va di raccontarlo, forse un’altra volta, ma insomma i problemi di vicinato non sono l’unica cosa che è andata storta in queste ultime settimane. Non mi piango addosso, mi risollevo e mi rimetto in marcia, ma una riflessione è d’obbligo, perché non può essere che li abbia incontrati tutti io, gli Arschloch, ovvero gli stronzi, di questa città.
Forse, semplicemente, la vita non è facile in una società così “inquadrata” come questa (la società-azienda come ben la descrive il mio amico curdo) per una come me che da un anno a questa parte è diventata più Alice nel paese delle meraviglie di quanto non pensasse. Non mi pento, però, di essere venuta qui, o almeno non ancora.
C’è una ragione di fondo che mi ha portata qui, al di là delle ragioni che ho elencato all’inizio del post e che mi hanno fatta innamorare di questa piccola città. La ragione di fondo è la scelta che vedevo davanti a me alla fine dell’estate. La scelta tra un secondo inverno di sole, ozio, arrampicata, magari in mezzo alla natura, circondata da altri viaggiatori come me o comunque da gente che ha intrapreso una vita molto più simile alla mia, in un paese dove la vita è lenta e facile e non costa cara, tanto poco cara da potermela cavare senza lavorare e con i soli risparmi del mio durissimo lavoro estivo, in attesa di un’altra estate di lavoro. Oppure un inverno quasi normale, in una nuova città, però più vivibile e comunque infinitamente diversa dalla mia vecchia Roma; una città in cui circondarsi di gente che studia o lavora e studiare e lavorare anche io, senza mettere necessariamente radici, ma fermandosi per un tempo abbastanza lungo da riuscire a guardare bene avanti, guardare bene indietro, ripercorrere la strada fatta e pensare bene a quella ancora da fare, calandosi però nel mondo reale e non in un idillio che forse va bene solo per i racconti da “mollo tutto e vado a vivere in mezzo alla natura”.
Ho guardato a questa scelta, ovviamente di strade avrebbero potuto essercene tante altre, ma queste erano le due più immediate e più prossime da cogliere, e un preciso e deciso desiderio mi ha fatto propendere per la seconda. Il desiderio di non finire ai margini della società. Ho lasciato quello che avevo non per finire a fare la fricchettona che si arrangia per campare come può e i cui eroi sono contrabbandieri da due soldi o gente che si improvvisa venditore di hot dog, birre o ben altro ai margini di certi festival alternativi. Il che è un modello che magari suona figo ma che a me pare altrettanto individualista quanto la società che si annuncia di aver abbandonato. Io ho lasciato quello che avevo perché volevo cercare il modo giusto, il mio modo, di dare un contributo a rendere questo mondo un po’ meno brutto. E perché sapevo che quello che stavo facendo della mia vita non era ciò che volevo. E come puoi darlo, questo contributo, se da quella società ti vuoi auto-emarginare? Come potrai provare a cambiarla?
Sono finita qui e forse il muro contro il quale mi sto scontrando a due mesi e mezzo dal mio arrivo non ha molto a che fare con questa città che continua a offrirmi riparo, tramonti sul lago, abbracci, biscotti buoni, meccanici gentili e idee a non finire. Forse il muro contro il quale mi sto scontrando è quello di una società che, volente o nolente, avevo abbandonato, e che ora non mi rivuole indietro, perché io non voglio lei com’è, perché non sono più la stessa e perché non voglio tornare ad essere quella che ero. La società basata sul profitto, sul consumo e sulla velocità non mi appartiene, e i miei occhi lo tradiscono anche quando non me ne accorgo. Ma questa non è una buona ragione per ritirarsi (o auto-ghettizzarsi) in una rassicurantissima nicchia in cui comunicare e vivere solo tra propri simili, in quella che chiamano la filter bubble e che ci porta a circondarci solo di chi la pensa come noi e a eliminare il resto. Resto convinta che esista una strada, resto convinta che esistano datori di lavoro per i quali l’essere umano viene prima del profitto sfrenato, che esista chi dà valore al tempo, alla parola, al sorriso, alle idee. Sicuramente da qualche tempo a questa parte ho comunque cercato nei posti sbagliati e nelle persone sbagliate. In qualche caso avrei dovuto fidarmi di ciò che mi diceva l’istinto e scappare prima di subito. In altri casi la delusione è arrivata come un fulmine a ciel sereno a rompere la favola bella che mi stavo raccontando col mio ritrovato sorriso.
Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. E quando ti fai male per quattro volte in un mese, in una città lontana da casa, non atterri certo sul morbido. Ma anche se adesso avrò bisogno di qualche giorno di pausa, lentezza e riflessione per leccarmi le ferite, quello che ho scritto due settimane fa è ancora valido: continuo a cercare. Imparo la lezione, aggiusto il tiro, e continuo a cercare.
Un pensiero su “L’atterraggio”