Una settimana e un giorno e quindici gradi in meno più tardi, il canale è deserto. Solo una dozzina di persone che corrono sole, e sulla via del ritorno, corre anche la squadra di calcio che poco prima si allenava nel campo sull’altra riva, con le maglie tutte spaiate.
Sotto il ponte vicino casa qualcuno ha lasciato tre sedie una accanto all’altra, qualcun altro ha costruito qualcosa che sembra una panchina di legno con uno strano schienale. Qui stasera non c’è nessuno, non ci sono i ragazzi argentini e americani a cui un paio di settimane fa distribuivo i volantini del nostro evento, non ci sono i tedeschi seduti sulle casse di birra ad aspettare gli amici mentre cala la notte. Ieri sera, mentre noi ce ne stavamo barricati a casa di un amico a guardare una partita di calcio dopo l’altra – barricati letteralmente, perché il proiettore è nella sua camera da letto e lui ha appena traslocato, e non avendo ancora montato le tende (qui le tapparelle sono cosa rara), ha messo un materasso appoggiato alla finestra per non far entrare la luce – dicevo, mentre ce ne stavamo barricati a guardare le partite, un’amica spagnola che vive qui ha mandato un messaggio che diceva: è una notte magnifica, forse è l’ultima notte d’estate, dove siete tutti?
E anche se rincasando alla fine della seconda partita, mentre percorrevo gli ultimi metri che mi separavano da casa, dopo aver gettato un ultimo sguardo a quell’unica luce accesa lassù all’ultimo piano, ha iniziato a piovere, io alla mia amica spagnola ho risposto che se ci crediamo, torneranno i giorni tiepidi e che non è ancora arrivato il momento di mettere via il costume da bagno. Anzi, questo non glie l’ho detto, ma ne sono sicura. Poi stasera, al tramonto, tornando a casa con la bici lungo il canale che sembrava deserto, ho creduto di avere le allucinazioni, ma erano due ragazzini in costume da bagno che erano appena usciti dall’acqua. Mi hanno detto che una volta superata la paura di tuffarsi, si sta abbastanza bene. E in effetti, avendo fatto il bagno nel torrente sulle Alpi e nell’oceano e in piscina all’aperto in inverno in Spagna, non è che dovrei farmi troppi problemi. Fuori ci sono quattordici gradi e io, per fare questo giro in bici dopo il lavoro, ho indossato per la prima volta la giacca invernale che ho comprato la settimana scorsa dal sito per cui lavoro, con lo sconto dipendenti. Fa uno strano effetto, indossare qualcosa di nuovo-nuovo. Anche se è costato poco. Non compro mai niente, ma mi serviva una giacca, mi sono detta, una giacca carina che mi renda più presentabile anche se vado sempre in bici e piove. Non è che posso passare il mio secondo inverno tedesco vestita da trekking come se lavorassi ancora nell’ostello in Norvegia.
E così, al riparo della mia nuova giacca, stasera, dopo il lavoro, mi sono seduta in riva al canale, vicino alla chiusa, a guardare il tramonto pallido. Stavo ascoltando la musica di Daniele Silvestri che mi fa sempre pensare a Roma, agli amici lontani e alle birre che non possiamo più berci insieme. Le strade di Roma mi tornano in mente nei momenti più impensabili. Spesso mi tornano in mente mentre in ufficio lavoro alle mie traduzioni. Non mi viene in mente uno scorcio in particolare. Forse la vista su viale del policlinico da una certa terrazza abbarbicata sulle mura. Forse il parcheggio di un ipermercato particolarmente brutto dove in una sera di agosto mi si ruppe la macchina e simultaneamente ricevetti un messaggio che mi avrebbe cambiato la vita. Forse la strada tra i villini che facevo a volte in pausa pranzo quando dovevo andare dal medico. I pini del parcheggio della palestra, quelli del parcheggio dell’ufficio, quelli, pochissimi, sopravvissuti al Pigneto. Il fango costante a lato dei campi da tennis, in fondo alla scala che portava alla palestra. Da sfondo a ogni strada, a ogni scenario nei miei ricordi non c’è più il rumore, lo stress, il traffico e la puzza di smog, ma solo io e gli spettacolari tramonti che Roma sapeva regalarmi, e che qui sono molto più rari.
Forse questi effetti speciali di sparizione del caos nei miei ricordi romani li devo al fatto che qui le macchine non sono molte. Un paio di settimane fa, un venerdì sera alle otto in una piazzetta relativamente centrale, mentre bevevamo una birra ai tavoli di una specie di chiringuito, avevo notato proprio questo: intorno a noi solo ogni tanto passava una macchina, e potevamo starcene seduti lì anche se intorno c’erano strade, senza quella orrenda sensazione di essere assediati dal traffico. Dev’essere anche per questo, mi ha fatto notare qualcuno ultimamente, che ho smesso di arrampicare. Non ho più nulla da cui scappare. Qui in città c’è tanta di quella natura e aria più o meno pulita che non sento proprio il bisogno di correre appena possibile a fare un weekend all’aria aperta. E per di più tutta la natura che c’è qui non sono solo i parchi, che li attraversi solo se decidi di farlo. Qui tutti i giorni vado in bici lungo viali alberati senza macchine, lungo la famosa tangenziale per bici che ormai quasi undici mesi fa mi ha fatta innamorare in cinque minuti di questa città, e lungo le rive del canale che è il mio nuovo rifugio, luogo di confessioni, meditazioni e di ritrovamenti, quell’angolo di mondo dove in una triste domenica di luglio pensavo di aver perso ciò che avevo di più importante. E invece stasera che ci ripasso, e mi fermo a guardare quella riva e a ripensare a quel giorno in cui l’estate sembrava già finire, mi accorgo che stupida me, non avevo perso proprio niente.