I tedeschi, a quanto pare, lo chiamano Tapetenwechsel. Ovvero, il cambio di scenario, di scenografia o, alla lettera, il cambio di carta da parati. Noi lo chiamiamo, semplicemente, “cambiare aria”. Un mio amico tedesco, che sa che amo le parole particolari come questa, me ne ha fatto dono – della parola, non della carta da parati – mentre qualche giorno fa attraversavo un parco di Roma e gli raccontavo, a distanza, che fare un salto nella mia vecchia vita, dopo un anno di assenza, ci voleva proprio.
Ci voleva, non per digerire rimpianti e mancanze e nostalgia, ma neanche, al contrario, per esultare di aver avuto ragione ad andarmene lontano. Nel corso dei miei frettolosi giri per rivedere persone care e luoghi del mio passato, qualche giorno fa, mi sono imbattuta in un personaggio politico italiano della cui esistenza mi ero completamente dimenticata. A dire il vero dimentico spesso chi sia il presidente del consiglio in Italia, di questi tempi, ma va be’. È andata a finire che, prima che potessi rendermene conto, venivo presentata al politico in questione accennando alla mia storia di recente “migrazione” da Roma alla Germania. Prima che potessi rendermene conto, gli stavo stringendo mio malgrado la mano, affrettandomi a puntualizzare che non me ne sono andata per disperazione o per rabbia ma per libera scelta, che l’ho fatto per curiosità, per provare una vita diversa, che non sputo nel piatto in cui ho mangiato e che non disprezzo il mio paese, che so di aver lasciato in buone mani, gli ho detto. E lui, che non fa parte della maggioranza di governo (ma io non lo sapevo) ha ovviamente pensato ai politici e al governo in carica, e ha reagito stizzito: ma come?! Io, che non sapevo più in che razza di discorso mi ero cacciata, ho tentato di spiegargli che al governo e al parlamento non ci pensavo proprio, e che mi riferivo agli esseri umani, ai miei connazionali, esseri che con tutti i loro difetti non reputo meno degni di stima dei tedeschi o dei cittadini di qualunque altro paese.
C’è da dire che ci sono delle cose dell’Italia che viste con occhi tedeschi mi colpiscono molto più di prima. Il tizio che si fa i selfie alla guida (non al semaforo, non nel traffico, no, proprio mentre guida). Il cartello (anzi, ben due cartelli) che invita a non suonare il clacson e usare invece il citofono per farsi aprire il cancello. Mezzo quartiere con i lampioni spenti da due settimane e devi tornare a casa facendoti luce col cellulare per scansare cacche, buche ed eventuali mostri più o meno immaginari. I signori in coda alla cassa dell’ipermercato che esprimono il massimo della rivolta sociale con il loro “dovremmo protestare perché è sabato e ci sono poche casse aperte”. Le piste ciclabili così fighe da interrompersi nel nulla o aperte a metà fino a un cantiere che dura almeno da sei mesi. Scoprire che se in Italia saper parcheggiare lasciando solo cinque centimetri di spazio tra la tua macchina, quella davanti e quella dietro è un talento, in Germania questa è una colpa passibile di denuncia.
Ho guardato la piazza della stazione della mia città con le palme un po’ avvizzite, mentre aspettavo mio padre all’arrivo in città, e mi sono chiesta per la prima volta se il senso del dovere che all’epoca della laurea mi spingeva a dichiarare che non avrei mai lasciato la mia città per trasferirmi altrove non fosse semplicemente uno spirito di sacrificio che non so bene che valore abbia. Solo pochi mesi dopo andai via (non così lontano) senza aver mai veramente cercato lavoro nella mia città. Semplicemente mi spinse la curiosità e il desiderio di scoprire un posto nuovo. Come adesso, come un anno fa.
Non me ne faccio una colpa, non più. Non trovo che ci sia un posto migliore di un altro in assoluto. Semplicemente trovo che dobbiamo prendere il meglio da ciò che abbiamo. Anzi, da ciò che abbiamo scelto. Trovare il posto che più ci somiglia in questo Lebensabschnitt, in questa fase della vita. Se vivessi ancora a Roma, sicuramente godrei ancora dei weekend di arrampicata con gli amici, dei concerti estivi a Capannelle e degli amici, tanti, che ho lasciato lì. Se fossi rimasta a vivere in Puglia non mi emozionerebbero così tanto come adesso la vista del mare e della terra rossa e degli ulivi, il sapore dei nodini e della parte bruciacchiata sotto la focaccia, la pelle raggrinzita dei pomodorini in un fruttivendolo di paese, la carne alla brace così diversa da quella dei barbecue in riva al lago qui in Germania, la miriade di cose buone che mi sarei portata via dall’ipermercato se non avessi dovuto volare con il solo bagaglio a mano. Ma non è lì il mio posto, non ora. Il motivo fino a poco tempo fa non lo sapevo, ma ora lo so, come ho scritto qualche mese fa.
Era sabato sera, ieri, mentre rientravo a casa dall’aeroporto con un viaggio in treno un po’ avventuroso, tra due treni cancellati senza preavviso (le ferrovie tedesche non brillano per efficienza, anche se dall’Italia risulta difficile immaginarlo) e i tifosi del Bayern e del Borussia Dortmund che facevano rientro dopo lo scontro al vertice conclusosi con la vittoria di quella che da sei mesi è diventata la mia squadra di calcio tedesca. La stazione di Dortmund era piena di tifosi delle due squadre, liberi di incrociarsi e anche di prendere lo stesso treno, eppure c’era poca polizia e nessun motivo di preoccupazione. La Germania ha riacceso potente il mio amore per il calcio sopito da tanti anni, e non è la prima volta che mi capita di passare in stazione o di prendere un treno quando ci sono tifosi in giro, e c’è sempre una bella atmosfera. Tanta birra sin dal mattino, ma una bella atmosfera. Mentre aspettavamo il treno poi cancellato ho intrapreso qualche chiacchiera consolatoria con i tifosi sconfitti del Borussia Dortmund. Sul treno, un unico tifoso del Bayern alquanto ubriaco ha fatto il giro della carrozza spiegando a tutti gli avversari che il Bayern è molto meglio e che farebbero meglio a cambiare squadra. A una ragazza deve aver detto qualcosa di meno gentile, oppure lei aveva davvero qualcosa che non andava, fatto sta che lei si è messa a piangere tra l’incredulità dei suoi compagni di viaggio.
Il tragitto in treno dall’aeroporto a casa è stato più lungo del previsto, ma è stato un viaggio nel viaggio, che mi ha ricordato ancora una volta una cosa che ho già scritto più volte: che non avrei tante storie da raccontare se non guardassi con occhi tanto aperti ciò che mi accade intorno. E che per viaggiare non occorre necessariamente andare lontano, o in un posto sconosciuto.
Anzi, come dice una citatissima canzone di Daniele Silvestri, “forse in fondo è vero che per essere capaci di vedere cosa siamo dobbiamo allontanarci e poi guardarci da lontano”. Banale, ma non avrei saputo dire meglio di lui che non c’è cosa più semplice del sapere perché voglio vivere qui dove sono. E che non ci sono spiegazioni da dare, anche perché più di qualcuno, è naturale, proietta sul mio racconto la propria voglia di evadere dalla propria realtà o di migliorarla, come facevo io quando, ancora a Roma, mi laceravo in preda a tutti i miei dubbi sul fatto di andare via. In sei giorni in Italia, riabbracciando gli amici ho risposto a tanti “come va” raccontando storie della mia vita tedesca senza la pretesa di riuscire a spiegare perché qui per me, e non in generale, la vita è meglio che altrove. Perché al di là dei clacson e dei tifosi, che sono cose che nella vita contano ben poco, ci sono altre che non ho saputo descrivere al politico stizzito e che qui sto provando a scrivere invano da oltre milleduecento parole. Perché la penso ancora come un anno fa: il paradiso non esiste. Non c’è bianco o nero, giusto o sbagliato, è solo che tornando a Roma e Bari ho riabbracciato persone che mi hanno fatto sentire a casa come se non le vedessi da due giorni e invece era molto di più, ma tornando qui, ieri notte, mi sono semplicemente sentita a casa.