Primo febbraio, e ieri ho letto su un sito che questo dicembre e questo gennaio sono stati i più bui dal 1951 in Germania, ovvero da quando i meteorologi tedeschi hanno iniziato a misurare il numero di ore di sole di cui possiamo godere ogni giorno (esempio: domani zero, dopodomani zero virgola cinque, domenica altrettanto, lunedì addirittura una, magari mentre sto ancora dormendo).
Il bello è che non me ne sono neanche accorta. Questo dicembre e gennaio non sono stati per niente dei migliori, anzi, qui le stagioni si percepiscono al cento per cento, e ora che è inverno ci manca l’euforia delle lunghe notti estive in cui fa buio alle dieci e giorno alle quattro del mattino, i pomeriggi al lago, i barbecue, la corsa a procurarsi la carbonella e le salsicce, la perfetta macchina organizzativa, le feste che si organizzano da sole, le uscite in anticipo dal lavoro previa autorizzazione collettiva dell’ufficio del personale perché delle rare giornate di sole bisogna godere appieno.
Questo dicembre e gennaio non sono stati per niente dei migliori per me, inaugurati da uno schiaffo che era solo la punta dell’iceberg, e terminati con un senso di perdita che un giorno sì e un giorno no faccio fatica a digerire. Eppure di questo buio, grazie alla vita che non mi lascia il tempo di annoiarmi, non me ne sono accorta proprio, nonostante le ferite nuove e le giornate in cui avrei avuto solo voglia di restarmene chiusa nella mia bellissima stanza.
Perché non scrivo qui quando sono triste? L’anno scorso, in realtà, di questi tempi capitava eccome, scrivere metteva in fuga le paure e i mostri e mi regalava abbracci e quel senso di condivisione di pensieri di cui avevo tanto bisogno. Ora, non so, mi viene di scrivere in quelle sere in cui le cose si rimettono al loro posto, in cui i miei mostri svaniscono e in cui addormentarsi è relativamente facile.
Forse perché è più facile essere lucidi quando i mostri vanno a dormire lasciandomi in pace e le cose volgono al meglio. Ieri sera non era una serata delle migliori e sono finita a leggere quello che scrivevo due anni e un mese fa, poche sere prima di lasciare per sempre Roma. Nel rileggere le mie parole mi sono rimaste due nette sensazioni: la voglia di abbracciare, uno per uno, gli amici che ho lasciato a Roma, perché in fondo non pensavo che sarebbe successo davvero, ma mi sono separata da loro forse per sempre, con incosciente leggerezza, e non lo sapevo; e lo stupore di avercela fatta, di essere andata davvero via, di aver trovato davvero un posto in cui sono più felice, in cui costruisco ciò in cui credo, in cui vivo a modo mio, libera da (quasi) tutto ciò che mi avvelenava.
Voglio dire però che la vita è tosta davvero, sarà che io certe difficoltà le percepisco più grandi di come sono, forse perché non mi accontento mai, nonostante il mio orgoglio di aver tenuto duro in tutto questo tempo. Voglio dire che credo ancora che delle frasi motivazionali che in tanti postano su Facebook ci sia solo da diffidare. E anche di quello che scrivo io. Non vorrei mai che il mio racconto fosse una risposta anche a uno solo di coloro che desiderano scappare da una realtà che li fa sentire intrappolati. La vita non è facile, anche qui, anche quando i miei occhi brillano, anche quando è stata e quando sarà di nuovo primavera, anche quando ci sarà di nuovo qualcosa che una sera, improvvisamente, irromperà nella mia vita trasformandola per sempre, con quel senso di irreparabilità che ogni volta mi lascia addosso addirittura per anni uno stupore pazzesco.
In fondo sono felice di tutto quello che non ho. Sono felice di tutte le volte che sto male e sbatto la testa contro il muro. Perché è il prezzo da pagare per essere stata profondamente felice, più di quanto non avessi mai immaginato si potesse essere. E ogni volta che le cose vanno male mi domando se avrei potuto accontentarmi e andare avanti. Poi mi ricordo.
Ogni volta che in queste giornate buie d’inverno ascolto qualcuno che dice che mancano solo due mesi, tre mesi, quattro mesi alla primavera (dipende dai punti di vista, come il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto), penso che se ogni inverno buttassi al vento quattro o cinque mesi di vita tappandomi in casa guardando una serie dopo l’altra in attesa che torni a splendere il sole, getterei via un terzo della mia vita che già mi pare troppo breve. E mi ricordo ciò che mi fu detto alle quattro del mattino di una folle notte dello scorso luglio, seduti a terra in mezzo alla nostra amata tangenziale per bici: che se conosci le persone giuste, anche l’inverno passerà felice, e in fretta. Ed è quello che ho provato a fare, tanto che di questo profondo buio quasi non me ne sono accorta.
E soprattutto mi ricordo una canzone che in un tempo ormai davvero lontano mi ha insegnato ad amare le piccole cose che rendono speciale la vita. Senza darle per scontato. Perché un giorno poi se ne vanno. Proprio quel giorno in cui pensavi che sarebbero state lì per sempre, e magari te ne stai lamentando parlando con un’amica. La chiacchierata sotto la pioggia, ferma la bici che ti aggiusto la luce, i fiori sul tavolino, i barattoli di vetro, il tizio sbronzo che mi vuole offrire un lavoro, la vecchia bici parcheggiata ancora qui in cantina da me e il barbecue che userò quest’estate, parcheggiato ancora nella tua soffitta forse da novembre. Qualche settimana fa, un amico con una storia molto diversa dalla mia mi ha detto tra i denti che sto invecchiando e che dovrei mettere in ordine la mia vita, prima che sia troppo tardi. Che ci sarà un tempo in cui lo zaino, gli incontri di scambio linguistico e le mille cose che faccio stoneranno con la mia età. E certo che la vedo anche io la mia pelle invecchiata. Se fossi rimasta sul divano, se avessi scelto di accumulare i soldi che servono per andare dall’estetista ogni settimana e dal parrucchiere ogni tre, forse oggi avrei un aspetto diverso. Certo avrei un vestito nuovo per ogni festa, non riparerei ostinatamente le scarpe ogni volta che si smonta il tacco, certo rimedierei a ogni ferita con un trucco.
E invece invecchio con le mie ferite in bella mostra, felice di godere e soffrire di ogni attimo, grata agli amici che non mi lasciano sola nelle sere in cui ho paura, e con la smania di condividere la mia felicità quando finalmente la riacciuffo per i capelli, estate o inverno che sia. Voglio dire che sono orgogliosa di quello che ho fatto e di tutto quello che ho sbagliato. Voglio dire che un anno più tardi non ho ancora un capello bianco. Ho lo stomaco spesso in disordine, quello sì, ho ancora più spesso le occhiaie e quasi sempre la testa spettinata che quasi mi fa rimpiangere i tempi in cui mi tagliavo i capelli quasi a zero. Voglio dire che non sempre ho la forza, anzi poche volte, e questo non aiuta a camminare a fianco di qualcuno che ha voglia di essere tanto libero quanto lo sono io. Eppure resto orgogliosa, perché in fondo non lo sapevo mica, due anni fa, che l’avrei fatto davvero, che avrei azzerato tutto quello che ero e ricominciato da niente, andando per tentativi, senza neanche sapere cosa stavo facendo. In fondo pensavo solo di stare partendo per un lungo viaggio da cui ci sarebbe stato comunque ritorno. E invece. Mica la vita la decidiamo noi. O forse invece sì, certo che la decidiamo noi. Solo che la decidiamo con lo stomaco e con l’istinto, così da non prenderci la responsabilità delle nostre stesse scelte, lasciando che siano i nostri stupidi desideri a governarle. I calcoli, quelli meglio lasciarli perdere. Tanto la vita ti frega quando meno te l’aspetti. Quindi inutile provare a prenderla sul serio, tanto vale prenderla in giro. E in fondo, forse, addirittura funziona.
Buonanotte dal buio inverno tedesco, non ci avrei mai creduto, ma persino qui non si sta così male.