Sabato è stato il primo vero giorno di sole dell’anno. La sensazione che si prova nell’accorgersi di potersi togliere la giacca, almeno per qualche ora, almeno al sole, è qualcosa che solo chi vive a queste latitudini può capire. Perché qui l’inverno è interminabile e buio, ma poi la primavera e l’estate, in un certo senso, arrivano, con la promessa di lasciarci indossare davvero i pantaloni corti e i vestiti leggeri e di farci fare festa all’aperto fino a tardi con la luce del giorno.

 Alle otto di sabato mattina, però, il calore ancora non si faceva sentire mentre camminavo lungo la strada di sempre, diretta alla mia macchina che da qualche giorno se ne stava parcheggiata in territorio altrui, reduce da un breve viaggio in cui per troppo buon cuore l’avevo mandata sola. E se alle otto di sabato mattina il calore non lo sentivo, era forse perché ero troppo impegnata a osservare che esattamente ventiquattr’ore prima avevo percorso la stessa strada nella direzione opposta, reduce da una festa che mi aveva inghiottita per ben dodici ore, in quella casa in cui non esiste spazio né tempo e alla cui porta, alla fine di sessantotto scalini, per una sera e una notte ha bussato l’intero mondo che negli ultimi dodici mesi abbiamo fatto incontrare.

È da un paio d’anni a questa parte che ho maturato la convinzione che compleanni e anniversari vadano festeggiati come si deve. È una questione di averla sfangata un’altra volta, di essere sopravvissuti a tutto ciò che noi stessi abbiamo combinato e a tutto il bene e il male che la vita, in quest’ultimo anno, ci ha riservato. No, non era il mio compleanno stavolta, anche se pure il mio l’ho festeggiato davvero a dovere, non molto tempo fa, tanto che subito dopo ho passato due settimane mezza morta con un’influenza che non mi beccavo da quando ero piccola. No, stavolta il compleanno non era il mio, ma coincideva con l’inizio di qualcosa che ha cambiato la vita a me e, indirettamente, a molti altri. E nel corso di quella lunga notte non ho potuto trattenere lo stupore ogni volta che la porta si è aperta per far entrare un’altra di quelle decine di persone che non sarebbero state lì quella sera se non fosse stato per tutta l’energia che in questo anno abbiamo dedicato a costruire quello che si potrebbe definire un grande ostello senza pareti e senza stanze, un rifugio a cielo aperto per i tanti viandanti che in questa città stavano solo aspettando di incontrare qualcuno che somigliasse a loro e che li facesse sentire meno soli.

In quella festa, e nella giornata inesistente che le è seguita, ho scambiato il giorno con la notte, ho vissuto un “sogno o son desto” da cui il lento risveglio di questo finalmente solitario fine settimana mi ha trasportata in una realtà trasformata, quasi un reset più necessario che mai. Che voglia di sparire per un po’, che avevo, e che ho ancora. Voglia di sparire e di pensare. Perché non è facile pensare quando sei sempre circondato di persone. Casa mia è un porto di mare, dalle porte sempre aperte, anche quando non voglio. Il bollitore produce di continuo acqua calda per il tè e la mia stanza ormai ospita costantemente scatoloni di cose del foodsharing da distribuire. In questi giorni, però, ho chiuso i battenti e lavorato senza sosta per cercare di rispettare una scadenza che non si lascerà rispettare. Per finire il lavoro in tempo dovrei rinunciare a una partenza in programma tra meno di tre giorni e che improvvisamente non sembra più la cosa giusta da fare.

L’incantesimo della vacanza imminente si è rotto lentamente ieri. Per un mio post in un gruppo Facebook, che doveva essere una richiesta di informazioni per vedere una partita di calcio in terra straniera e si è trasformato invece in veicolo di molestie e allora ti blocco. Per la promessa di un barbecue nel fine settimana, il primo barbecue dell’anno, per cui i tedeschi hanno coniato persino un verbo, “angrillen” (iniziare a grigliare), il primo sabato di sole e venti gradi, meglio del posto in cui sarei diretta. Per la violenza assolutamente gratuita nelle parole e nei silenzi di una persona che all’improvviso non mi guarda più negli occhi e cerca di farmi sentire piccola piccola, ma stavolta non glie lo permetto. E per la violenza della malattia che ha aggredito di nuovo un ragazzo che poche settimane fa suonava la chitarra alle nostre feste, che nella lunga estate dell’anno scorso sembrava averla beffata, la malattia, e invece adesso è intrappolato nella terapia intensiva di un ospedale a forma di torre impacchettata nella plastica.

Non ho voglia di partire. La cosa strana è che avrei voglia di vivere mille vite contemporaneamente. In queste settimane mi è capitato di piangere più di una volta per la nostalgia di “casa”, dei miei fratelli, di mamma e papà, delle foto che mi mandano nelle giornate trascorse insieme. Della ruota panoramica sul lungomare, dei fine settimane in falesia, delle sere in palestra di arrampicata, e di tutti i posti in cui ho vissuto dopo. Ho visto la foto di un amico che sta passando alcuni mesi dall’altra parte del mondo e tutta la famiglia è andata a trovarlo per pasqua. Questa foto mi ha strappato il cuore. No, non è perché non voglio stare qui, qui è casa, fin troppo casa, anche quando la persona più cara che ho mi pugnala di proposito. No, è che voglio stare qui, esattamente qui, ma voglio essere anche altrove, e in mille altri luoghi. Voglio viaggiare, rivedere persone a cui mi sono affezionata per due giorni viaggiando, vecchi amici con cui mi scrivo da anni senza avere modo di incontrarci, voglio ospitare gli amici non troppo lontani che hanno voglia di passare a trovarmi. Quando lasci la tua prima casa, non sarai mai più a casa in un solo posto. Certi giorni, sarai a casa ovunque ti trovi, con il tuo passaporto e il tuo bagaglio di viaggiatore, grazie al quale puoi cavartela ovunque. Certi altri, ti sentirai strappato al mondo da cui vieni o in cui saresti “dovuto essere”, qualunque esso sia.

La prima amica cinese che ho conosciuto qui oggi è partita per ritrasferirsi in Cina dopo anni trascorsi in Germania, un master, un fidanzato tedesco e tentativi vani di trovare un lavoro decente. Ieri pomeriggio sono andata a casa sua a salutarla, anche se già ci eravamo dette arrivederci con un mio gran pianto nel bel mezzo della folle festa di cui sopra. Ieri lei, che è di taglia persino più piccola della mia, mi ha lasciato una busta piena di tutti i vestiti che non aveva modo di far entrare nelle sue tre grandi valigie, e che ho subito iniziato a indossare. In Cina usare Facebook o Whatsapp non è facilissimo, quindi mi sono iscritta all’analoga app cinese per restare in contatto con lei. Lei mi ha detto: qualcosa di me resta qui, hai i miei vestiti. Ma qualunque chat o qualunque vestito non sarà mai la stessa cosa dei nostri venerdì pomeriggio tedesco-cinesi che la frenesia di certe giornate affollate non mi ha permesso di apprezzare fino in fondo.

Una decina di giorni fa, nel corso di una cena ben riuscita a casa mia, non so com’è mi sono allontanata un attimo e quando sono tornata ciò che mi è venuto in mente è stato: amici miei, non voglio che andiate via. Nessuno di loro se ne andrà da qui domani, è solo che siamo un popolo senza paese, cambieremo ancora casa e ci mescoleremo ancora, arriveranno persone nuove cui affezionarsi in breve tempo senza rendersene conto, e senza accorgersi del tempo che passa tutti andranno via, come anch’io sono andata via a suo tempo dalla mia vita romana, dopo aver passato tanto tempo a guardare intorno a me un mondo intero di gente che diceva ciao, arrivederci, addio.

Vorrei essere in mille luoghi allo stesso tempo e vivere mille vite, come questo fine settimana, non vorrei rinunciare al mio viaggio ma neanche al primo barbecue dell’anno. In fondo, questa è la sensazione migliore che possa provare. Perché non mi basta la vita che ho da vivere. Com’è lontana l’estate di ormai quasi due anni fa, quando sulla mia isola lontana, sfinita da ottanta ore di lavoro a settimana senza giorni di riposo, da un popolo razzista e inospitale e da una serie di personaggi cui, pensando erroneamente che la vita non potesse offrirmi di meglio, avevo dato troppo spazio, su quell’isola lontana avevo pensato per un tempo certamente troppo lungo che la vita non valesse la pena di essere vissuta. Che fosse valsa la pena di provare e riprovare. Di lasciare quello che avevo e ricominciare. Che ero forte abbastanza, che ce l’avevo fatta ad andare via, e addirittura il lavoro dei miei sogni era venuto a trovare me quasi prima che io l’avessi cercato. E che però quel lavoro non era bello come lo sognavo, e le persone belle erano belle solo in vacanza, e che ero sola al mondo con la mia idea di una vita diversa e un mondo diverso. O, meglio, che tutti quelli che come me ci avevano provato, e di cui ogni giorno sfilavano esemplari nella reception del mio ostello, avevano finito per impazzire. Messa di fronte a quella che all’epoca si rivelava una realtà sconsolante, sommersa dal lavoro e senza un’ora di tempo o una macchina per andare dal medico a capire cosa fosse quel dolore orrendo che avevo da mesi sul lato sinistro della faccia, mi sono trovata più volte a pensare che in fondo, se avessi scoperto troppo tardi di essere malata di qualcosa che non si poteva curare, pazienza, la mia strada l’avevo fatta. Avevo provato, mi ero buttata, avevo dato tutta me stessa, e pazienza, game over, anzi forse meglio così, meglio risparmiarsi un’altra delusione.

È per questo che dico sul serio quando dico che la città delle biciclette, la città-ostello in cui vivo da un anno e mezzo, la città che neanche sapevo esistesse, questa città mi ha salvato la vita. Ora che la vita invece non mi basta, ora che se potessi smetterei del tutto di lavorare perché ci sono così tante cose che hanno tanto valore e che posso fare con la mia vita, ora che allontanarmi per un fine settimana mi pesa, perché qui succede sempre qualcosa di bello, o se non succede, lo facciamo succedere noi. Ora che mi fa infinitamente rabbia pensare a qualcuno non lontano da me che sta male e che non può fare tutto ciò che io ho ancora la ricchezza e il potere (chiamiamolo salute) di scegliere di fare.

Non ho voglia di perdere tempo. Non ho voglia di perdere nulla. Persino le ferite non fanno davvero male, se penso a quanto poco significato hanno rispetto al valore di quello che ancora posso vivere sulla mia pelle. Comprese le cose brutte. E, ovviamente, quelle prodigiose. Compreso il viaggio per il quale non so se partire. Ciò che accadrà se decido di restare. Ciò che accadrà se cambio programma ancora una volta.

A volte penso che non mi basta una vita per tutti i libri che non ho letto, e che non leggo, perché purtroppo leggo molto meno di quanto vorrei. Per tutti i viaggi che vorrei fare, per tutte le lingue che vorrei migliorare o imparare da zero. Che sicuramente, per cominciare, aiuterebbe non ricascare nello sprecare ore in una vita di lavoro inutile, di riunioni, di formalità, di scadenze impossibili che non servono a nessuno. Da un po’ di tempo a questa parte, ogni volta che dedico del tempo a questa cosa che si chiama foodsharing, ovvero al recuperare alimenti ancora buoni che altrimenti verrebbero buttati nella spazzatura, mi sfinisco, ma mi rallegro di impiegare il mio tempo in un modo che vale dieci volte più del normale. Guardo i pomodorini ancora buoni che ho salvato uno a uno da una cassa di verdura destinata al cassonetto, e mi paiono ricambiare il mio sguardo con un sorriso.

E per fortuna, da un po’ di tempo a questa parte, penso che ci vorrebbero mille vite per fare tutto quello che ho voglia di fare. E che siccome di vita ne ho una sola, c’è una sola cosa da fare: non stare a guardare, non regalare il mio tempo alle cose sbagliate, alle persone sbagliate, non regalare i pomodorini alla coinquilina imbronciata ma alla vicina gentile, e non avere paura di scegliere cosa farò domani, perché non c’è niente da cui valga la pena di scappare, e perché ovunque vada o ovunque scelga di restare, qualcosa accadrà per cui ne sarà valsa la pena.

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