Il prato davanti al lago è deserto, pulito e pettinato, vestito a festa con i bidoni arancioni sistemati in ordine vicino agli alberi e alle tre palle da biliardo, di fresco pittate di bianco.
Come si fa a fermare il tempo? Ho appena detto che mi piacciono tanto le sere di giugno, quando fa buio più tardi che mai e c’è più tempo per essere felici. È la sera del primo giugno ed è venuto a piovere sul kebab siriano, sulla limonata strepitosa alla menta e sulle nostre (tante) parole. Il fuggi fuggi degli altri clienti ha fatto spazio per noi a un tavolo un po’ più al riparo. Un signore anziano ci guarda di nascosto alla finestra. Chissà se ci ascolta mentre ci raccontiamo di stomaci orrorosi e fettuccine Alfredo e polizia al barbecue e punk in pensione e piante di cui prendersi cura per imparare a prendersi cura di sé stessi.
Come si fa a fermare il tempo? Quando per quanto ce lo si possa dire, avvisare, quando non ci si conosce abbastanza si fa fatica a credere che sia vero, che sì, “all good things must reach their rotten end”, che verrà il giorno in cui la parte marcia verrà alla luce, guarda che un giorno ti farò male, guarda che un giorno sarà troppo e me ne andrò, guarda che ti trascinerò in basso, ma all’inizio non ci si crede mai. Questo senso di scoperta, e la conosci questa canzone? Wow, sì che la conosco, ma da un’altra vita ugualmente memorabile. E guarda che faccio una salsa di pomodoro che spostati, e fammi provare le tue birre belghe anche se mi piace solo il whisky, e aspetta, ti aiuto a mettere la bici in cantina, e no grazie, come credi che abbia vissuto fino ad oggi con tutta la mia indipendenza? E guarda le montagne a picco sul fiordo dietro l’angolo di dove ho vissuto, però no, lì non c’erano tutte queste persone che qui ogni giorno mi cambiano la vita.
Non me lo ricordo più, quando è successo, qual è stato il giorno in cui questa città mi ha salvato la vita. L’altro giorno, mentre attraversavo il parco nel mezzo di un barbecue di compleanno ho pensato che se un giorno non troppo lontano qualcuno o qualcosa mi strappasse via per sempre da questa città, non credo che reggerei, “come se andare lontano fosse uguale a morire”. Da ieri è giugno e giunta all’undicesimo mese in questa casa ho pensato di scrivere sul campanello il mio nome, quello delle mie due coinquiline e di Mila, il nostro cane. Sono quasi due mesi che fa caldo qui più che in Italia, dal giorno in cui un uomo si è schiantato con un furgone contro i tavolini dei ristoranti chic della città. Era il primo sabato dopo pasqua e il primo giorno di sole. Non ci penso mai. La città non è cambiata e non ha mai avuto paura nè ferite. Io l’estate scorsa avevo una ferita sul ginocchio che non andava via, ma prima di natale un’altra caduta ha cancellato quasi tutto. Occorre sempre una nuova ferita a cancellare quelle di prima. Ma la scorza è più dura, e la nuova ferita farà sempre meno male della precedente.
C’è un gran silenzio in questa casa e la finestra è sempre spalancata. Fuori le voci di grigliate in giardino, oltre agli immancabili uccellini che col loro canto dichiarano che è estate. Le patate del foodsharing sul tavolo. Devo cucinare per una cena, ma non prima di aver terminato la birra buona rimasta a metà da ieri sera. Non prima di aver scritto questa fotografia di questa settimana lunghissima, del caldo che si appiccica sulla pelle, del disordine e della meraviglia che lascia senza parole. Quando una vecchia ferita inaspettatamente se ne va e lascia il posto a pelle nuova pronta a farsi abbronzare, scorticare, sudare, a giorni nuovi da vivere, non ne avrò mai abbastanza.