In Italia non state guardando i mondiali, lo so, qui però sì. Oggi la Germania ha giocato una merda, ha preso una batosta che a loro fa male. A me non fa male, io vivo in una bolla messicano-colombiano-spagnola qui a Münster e voglio bene a tutti loro. Uguale come va a finire, mi godo e mi godrò questi mondiali da spettatrice di tutte le partite, finora le ho viste quasi tutte, ho sempre qualcuno con cui simpatizzare, in questa bolla in cui per ogni paese ho un conoscente o amico o persino qualcuno che è andato in Russia per i mondiali (compreso chi ci è andato in bici).

Sapete cosa c’è di bello e triste al contempo? Che il mondo sta andando a rotoli. Che il mio paese sta andando a rotoli e io ci sto male non poco. Che però esiste un mondo in cui non c’è da “restare umani”, c’è solo da essere umani. Con tutte le differenze del caso. Sono quasi due anni che vivo con questa gente in questa isola perfetta. Sarebbe bello dire che non esiste nazionalità, origine, religione. Eppure esiste tutto ciò e significa che guardiamo le partite e solidarizziamo con il brasiliano che non vince quattro a zero come avevo scommesso, e con i tedeschi che vanno a casa senza parole sperando che sabato la Svezia li tratti meglio di come ha trattato noi a novembre. Nazionalità, origine, religione, esistono eccome e significano che in questi giorni festeggiamo la fine del ramadan, che non mi riguarda ma che riguarda tanti di noi. E che quando esci con un ragazzo devi domandarti come la pensa su certe cose e in fondo è troppo facile sbagliare, tanto vale essere se stessi con tutta l’incompatibilità del mondo.

Non è che la vita sia facile qui in quello che credo sia un esperimento involontario quasi unico al mondo di comunità internazionale che va oltre le nazioni unite, e che in una città di trecentoventimila persone riunisce quasi duecento esseri umani di più di cento nazionalità diverse sotto un tetto che è un gruppo whatsapp e in senso più ristretto una famiglia, una catena di amori, di litigi, di barbecue, di esperimenti culinari, di molte lingue che parliamo, di cose che condividiamo e di cose che ci rubiamo a vicenda. Ultimamente è successo un litigio di quelli che non si riescono a raccontare e che ancora mi fa solo volere correre a prendere le persone che tra loro non si parlano e metterle una di testa contro l’altra fino a che non fanno pace. Io ci sono finita in mezzo perché uno dei due è stato il mio ragazzo e un anno dopo è ancora la persona che mi è più vicina, di cui conosco la testa dura, il buon cuore e l’anima di viaggiatore.

La lite è successa perché il mondo là fuori, a forza di bussare alla nostra porta come ‘o pappece ‘nfaccia ‘a noce, riesce a fare breccia anche nelle nostre vite. E se l’odio o almeno il sospetto tra popoli là fuori è la norma, noi ce n’eravamo dimenticati, e ora lo sappiamo un’altra volta.

Ma lasciatemi raccontare. Siamo un gruppo che fatica a non definirsi di amici, in una città di medio-piccole dimensioni in mezzo all’Europa, non ci lega qualcosa di professionale o un percorso di studi, nè i progetti per il futuro, nè l’età o lo stato civile, nè l’origine, la religione o la nazionalità. Proveniamo da ogni parte del mondo dal Cile al Bangladesh alla Siberia alla Nuova Zelanda. Ci siamo incontrati perché dovevamo incontrarci. C’è chi fa la ragazza (o il ragazzo) alla pari presso una famiglia tedesca, chi lavora in una grande azienda e chi un un call center abbastanza di merda, chi insegna inglese e chi è rifugiato, chi ha cambiato sesso nel suo paese, chi aspetta un posto all’università, chi ha sposato un tedesco incontrato in vacanza, chi sta facendo un master e le consegne con Foodora, chi studia tedesco e fa il cameriere, chi è scappato di casa, chi si è innamorato online di qualcuno che viveva qui ma una volta arrivato dall’altra parte dell’oceano non era la stessa cosa ma comunque è rimasto, chi sta facendo uno stage, chi fa l’infermiere come tantissimi perché qui d’infermieri c’è carenza, chi si è trasferito con mamma e papà, chi qui ci è nato e sempre ci tornerà ma affetto dal morbo del viaggio continua ad andare e tornare. All’inizio eravamo un gruppo di gente che si conosceva tramite un giro di eventi per persone curiose, straniere o che semplicemente non volevano sentirsi sole. Poi siamo diventati (almeno alcuni di noi) un gruppo di persone che si vogliono bene e si tengono per mano, fanno il pranzo di natale insieme e il capodanno e tutti i compleanni, e vanno in vacanza insieme in Spagna con un volo a sedici euro andata e ritorno, con tutti che domandano: ma chi siete, questo miscuglio di popoli che sembra essersi scambiato la pelle? Chi vi ha messi insieme?

Solo ultimamente mi sono resa conto che siamo qualcosa di unico al mondo. E sì, siamo belli e ovviamente la bellezza non può durare per sempre, e così un mese fa un litigio odioso ha rotto un pomeriggio di barbecue in cui io neanche c’ero (ma tutti mi hanno subito telefonato per informarmi), e la storia in sè a raccontarla fa solo male, ma ciò che ne consegue sono accuse di razzismo alla rovescia, sei europeo quindi merda, hai la vita più facile della mia quindi merda, e no non lo accetto, no, anche perché io e lui spendiamo le nostre vite perché l’integrazione si realizzi tra un barbecue e una partita di calcio, un amore che nasce e un aiuto a finire i compiti di tedesco per domani o a capire come si apre un conto in banca o altre questioni di burocrazia. E allora ho pianto molti fazzoletti per le accuse non rivolte direttamente a me ma che mi feriscono perché so che non sono sincere ma vengono da un lavaggio del cervello per cui noi siamo peggio perché siamo nati qui e perché, qualunque cosa accada, in fondo, abbiamo il paracadute.

Il lavaggio del cervello lo capisco. La politica italiana in questo momento la guardo da lontano ma non troppo. Mi fa male. A furia di rispondere alle domande della gente di qui mi sono accorta che improvvisamente abbiamo un governo molto più di merda di quelli che ci sono in gran parte d’Europa, eccezion fatta per l’Ungheria e pochi altri. Ieri sera sono scesa per una birra per strada all’angolo di casa e ho incontrato un ragazzo iracheno di ventun anni che sta qui da tre, da solo. Lo conosco da un anno e un anno fa quando lui mi scriveva un messaggio in tedesco, lo giuro, non capivo niente (come molti arrivati qui molto giovani non parla quasi inglese). Ora possiamo confrontarci sulla politica e ieri sera gli ho domandato perché posta su Facebook tante foto di Saddam Hussein. Saddam con la famiglia, Saddam seduto in riva al fiume. Lui aveva sei anni quando la guerra è incominciata. Come ve lo dico, qui lui non è un outsider, soprattutto da quando parla bene la lingua. Sta studiando e troverà lavoro. Mi dice che in tre anni non ha mai subito episodi di razzismo. Che forse lo scambiano per italiano e non dicono niente. Un tempo la sua vita era peggiore qui perché viveva con altri che parlavano arabo e faceva fatica a integrarsi. Per coincidenza, grazie a un ragazzo italiano conosciuto nell’evento che co-organizzo, ha trovato una stanza in un posto carino vicino casa mia e parla molto più tedesco di prima. Oggi stava con noi a vedere la partita con tanto di maglia della Germania (io no). Ieri sera gli ho domandato il perché delle foto di Saddam. Anche perché ultimamente sono uscita con un ragazzo siriano e quando lui è venuto a cena a casa mia, mentre io ero al telefono alle prese con un parallelo litigio in spagnolo, in cucina lui ha fatto incazzare la mia coinquilina tedesca che ha studiato scienze islamiche discutendo di come con Assad ci fosse più o meno libertà religiosa in Siria, dopo averle detto che da teenager, nonostante il parere contrario di suo padre parlamentare e diplomatico, lui aveva in camera un poster di Assad che poi ha strappato via con violenza.

Io ascolto, domando, osservo. Un tempo avrei scritto: chissà cosa penserete di tutto questo. Ora, forse, non mi importa molto. Aspetto che la vita sia abbastanza noiosa da lasciarmi il tempo per documentari e libri su queste e altre parti del mondo. Penso alla nave in balia delle acque ma non domando a nessuno com’è arrivato qui, come nessuno lo domanda a me, anche se io la racconto lo stesso, la mia storia d’amore con questa città. Non è vero che siamo tutti uguali, io ce l’ho il paracadute, io ce l’ho la vita facile. Però è vero che a trattarsi come se fossimo tutti uguali per lo meno certe barriere si rompono e si rompe un certo immaginario (tu tedesco mi odi anche se non me lo dici e io perché sono siriano devo gridare più forte e imparare a insultarti nella tua lingua fino a farti male) che è quello che ha portato al litigio al barbecue di cui sopra, e che è meglio chiamarlo litigio ma è molto, molto peggio di così, solo che mi fa troppo male a parlarne.

Per fortuna ci sono i mondiali a darci una scusa per insultarci a vicenda e amarci quando tutto va bene. Con molte birre e piogge improvvise ad accompagnarci, perché altrimenti non sarebbe un’estate tedesca. Io incrocio le dita per voi che avete una squadra ai mondiali e ogni giorno esulto per chi mi pare e chi mi fa battere il cuore. E incrocio le dita per il mondo, per l’Italia, per noi che facciamo pace, per le navi in mezzo al mare, per le persone che un giorno arriveranno in questa città che aperta non lo è solo a parole e che tra quattro anni saranno al nostro fianco quando davanti a un maxischermo si spera migliore di quello di oggi guarderemo i prossimi mondiali.

2 pensieri su “Tra le bandiere

  1. Mi hai fatto ricordare un bel po’ di anni fa quando mi trovavo nella tua situazione tra ragazzi di ogni dove…. forse era un po’ più facile ai miei tempi, era ormai un’altra epoca….. ma mi è venuta un po’ di malinconia ☺

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