Ci sono sogni che faccio così assurdi e realistici da fare paura. Con personaggi del mondo reale mischiati senza alcun senso in posti che non c’entrano niente con loro. Ieri nel mio sogno c’era mio fratello, che mi manca un sacco. Non mi ricordo dov’era il posto, somigliava alle colline della Toscana, ma era tutt’altro. C’era gente che ci incasinava la vita, e c’erano amici, insomma c’erano persone belle e brutte, com’è fatta la vita.

Se sto pensando ai sogni è perché si avvicina l’ora di dormire. Non mi ricordavo niente di quello che ho sognato nelle ultime notti. Mi sono sempre svegliata di botto, per fortuna dopo aver dormito abbastanza, preda dei pensieri delle scartoffie da riempire in una lingua che quando si tratta di burocrati non padroneggerò mai, e degli armadi da smontare e montare, i cui pezzi fino ad oggi giacevano accumulati da troppo tempo nella mia stanza.

Oggi due amici meravigliosi mi hanno regalato un’intera giornata del loro tempo per montare due armadi, smontarne uno, scoprire che col primo armadio montato abbiamo preso un abbaglio e l’abbiamo montato al contrario, così che ora mi mancano le aste e gli scaffali, perché è tutto della misura sbagliata, abbiamo appeso al muro i pannelli di sughero che avevo comprato un anno fa, è vero che non ci voleva niente ad appenderli ma li avevo comprati e lasciati lì a marcire, come la stampante regalata che con il mio computer non funziona, come i vestiti della mia amica cinese e del mio amico brasiliano che con me non c’entrano gran che e non ne avevo neanche troppo bisogno.

Stanotte sognerò circondata dai miei nuovi armadi, dai chiodi e dai poster spostati da una parete all’altra, dalle cartoline resuscitate dai cassetti alle bacheche, dallo scaffale ikea a cubi che è molto più bello messo così a lato del letto, dalla poltrona con poggiapiedi che è finalmente regina e non gregaria nella mia stanza a lungo troppo affollata di cose.

Domani guiderò andata e ritorno per cinque ore per andare a prendere il mio compañero che torna a casa dopo un viaggio di sette settimane da cui non pensavo sarebbe tornato. Torna con un infortunio al ginocchio procuratosi nel posto più remoto del mondo e con stampelle di fortuna pronte a farsi abbandonare a favore delle stampelle di qualità occidentale che suo papà mi ha mandato a casa la scorsa settimana. Come ho pianto la sera prima della sua partenza! Era la notte della finale dei mondiali, e complice qualche birra di troppo, ho pianto davanti a tutto il mondo pensando che la vita qui senza di lui non sarebbe stata la stessa. E invece, come ho goduto di questa libertà! Essere me stessa per sette settimane senza la persona con cui inspiegabilmente ancora divido la vita, tutti i santi giorni. E com’è grande l’emozione da un po’ di giorni a questa parte all’idea di rivedersi domani con lui che, a suo dire, mi viene consegnato alla macchina in sedia a rotelle dal personale dell’aeroporto, con lo zaino grande e la maglia tarocca della Croazia in misura da bambino portata nello zaino per me. Oltre al maglione peruviano che mi arriverà tramite un’altra valigia da qui a qualche settimana. Tanto per ora non fa così freddo.

Annovero tra i misteri della vita le felicità che avrei pudore a descrivere se non mi fossi allenata a scrivere e raccontare della mia vita come se fosse un romanzo che non mi riguarda direttamente. Anche perché ciò che ho scritto finora sarà stato, come minimo, fonte di grandi malintesi tra i pochi tra voi che si saranno spinti a leggere fino a qui. La libertà di queste sette settimane è stata meravigliosa e ha dato vita ad altre cose belle. I tempi che verranno, vedremo. L’inverno qui è tosto e occorre coltivare le persone che ci fanno brillare gli occhi, per avere qualcuno che sia sufficientemente meraviglioso da valere la pena di dividersi il divano quando il marciapiede e la strada e i pensieri sono ghiacciati e gli alberi della Promenade sono nudi e non trattengono la pioggia mentre torni a casa in bici.

Ancora per poche ore è agosto e resta poco tempo per quella felicità che poi sbiadisce quando la bella stagione ci dice arrivederci. L’anno scorso non avevo la stessa sensazione, forse perché l’estate era stata pallida, piovosa, grigia e in fondo non troppo felice, ma quest’anno, come due anni fa in Norvegia, mentre settembre si avvicina mi sembra di nuovo che l’arrivo dell’autunno porti con sé la fine di un milione di meraviglie. Delle notti al canale, dei colpi di fulmine, dei pantaloni larghi, delle gambe abbronzate, delle cose che si fanno senza pensare, delle birre belghe, degli azzardi che ne valeva la pena, delle bandiere dipinte sulla pelle, dei mondiali già così lontani, della spiaggia spagnola meravigliosa, della tempesta di sabbia nella duna, di una conversazione fuori dal tempo carica di rimpianti, di tutto questo perdersi e ritrovarsi.

Ho nostalgia di molte cose, è stata un’estate improduttiva ma meravigliosa. Se potessi augurarvi qualcosa vi augurerei una vita ricca di avvenimenti come questi ultimi mesi che in fondo mi sono sembrati niente di che. Il caffè rovesciato sul vecchio computer, quello magari no. O forse anche. Povero il mio vecchio Mac che a cinque anni e undici mesi di vita ancora costringevo ai lavori forzati. È così bello finalmente avere di nuovo un computer che funziona davvero e non solo a tratti. E a parte questo, la Croazia, i caroselli di auto alla rotonda, la pizza margherita col pesto, le buche scavate dagli scoiattoli nel terreno e scivolarci dentro senza parole, le canzoni che offendono e nell’euforia non ce ne siamo accorti, le tante sigarette di padri e mariti infelici che nella loro infelicità resteranno, il profumo alla pesca del fumo di shisha, cinque gol inaspettati allo stadio tra i fumogeni indesiderati, un numero di telefono quasi inutile scritto su un sottobicchiere spezzato a metà e che aspetta un ricongiungimento che sarà solo un’illusione, la morte inspiegabile e ingiusta di due viaggiatori che amavano tanto la vita, i vestiti ricevuti in regalo e mai più staccati dalla pelle, le bandiere gestite da sola, le pizze buonissime e care e quelle economiche divenute cattive, la cassa di birra bevuta in un attimo con i colleghi nell’ultimo pomeriggio del vecchio lavoro e i regali, i disegni e gli abbracci che non mi aspettavo, la chiamata del capo supremo oggi mentre montavo i mobili e mi voleva dire solo grazie e scusa che non c’ero quando te ne sei andata, un villaggio sperduto e senza autobus di notte a pochi chilometri dalla città e io che voglio fare l’autostop e non me lo permettete, un trasloco altrui che mi regala sogni e vacanze e amicizia e giornate al lago e foto di posti pazzeschi, le lenzuola a colori accesi e i cuscinoni sul prato di un ostello diventato casa, e non andar più via, e non andar più via.

Se dipendesse da me, mi regalerei un autunno meraviglioso come questa estate che spero non voglia finire proprio domani. Un tempo meraviglioso e insoddisfatto, il che vuol dire che c’è ancora un sacco per cui vivere, e per cui darsi da fare.

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