Le partite vanno male da una settimana a questa parte, oggi ci ha salvato la sorte e una traversa maldestra o malandrina che dir si voglia. Domani è festa nazionale e quindi domani non si lavora e stasera non si torna a casa di corsa dopo la partita infrasettimanale, si resta fuori, anzi c’è chi arriva alle due di notte un attimo dopo che io sono andata via.
Domani una corsa ciclistica attraverserà la città e per questo già da oggi alcune strade sono chiuse al traffico, senza che però sia stata data adeguata comunicazione. E così, alle cinque e mezza di un martedì pomeriggio prefestivo e pre-ponte, sono finita intrappolata per due ore in macchina per fare la bellezza di cinque chilometri e mezzo, attorniata da automobilisti e conducenti di autobus allibiti e lasciati privi di qualsiasi informazione, nella totale assenza di alcuna autorità addetta a gestire il traffico totalmente impazzito.
Domani è tre ottobre, festa della riunificazione della Germania e, come mi ricordano gli alberi ingialliti dal repentino arrivo della stagione autunnale, secondo anniversario del mio arrivo inconsapevole in questo paese che si è lentamente appropriato di un pezzo importante della mia anima.
Stasera, dopo la partita, ho detto ai ragazzi che volevo andare al porto. Com’è deserto il porto anche in una serata prefestiva come oggi, vuol dire proprio che “la coperta è gelata e l’estate è finita”, è l’una di notte e alcuni locali sono già chiusi addirittura, allora non era un’impressione sbagliata quella di mercoledì scorso, quando a mezzanotte ci aggiravamo con la birra belga nei bicchieri esplorando i meandri del porto e domandandoci perché l’elefante sull’altra riva si chiama elefante anche se non ha proboscide né orecchie giganti.
L’elefante è ancora lì, era lì prima che questo capitolo della mia vita incominciasse e sarà ancora lì quando questo capitolo si sarà chiuso. Un elefante di cemento, chi lo sposta? Per me l’elefante, da quel mercoledì sera, sarà lì per sempre, monumento alla mia vita che continua, qualunque cosa accada.
Lo dico spesso e lo ripeto che da quando sono anagraficamente più anziana che giovane penso che i compleanni vadano festeggiati davvero. A volte mi viene di festeggiare piccoli traguardi, come quello di essere sopravvissuta a un fine settimana particolarmente folle, hardcore nel senso meno spinto del termine, o sopravvissuta a un litigio con l’unica persona senza la quale la mia vita non sarebbe più la stessa.
A volte penso preventivamente ai dolori che la vita potrebbe, per così dire, regalarmi. Ci penso perché a volte mi sembra di volare, ci sono settimane intere in cui mi sembra di volare, in cui mi aggiro per la città con gli occhi pieni di felicità e rispondo a qualunque messaggio dicendo: sono sulle nuvole, parliamo poi. E allora, rendendosene conto, uno si deve tutelare da se stesso, prima di farsi troppo male, un giorno. A volte penso preventivamente a certi tipi di dolore e penso a quel giorno (ormai parecchie vite fa) in cui ero in Spagna lasciata totalmente da sola con il senso di abbandono più prevedibile e irrimediabile del mondo, eppure ho preso tutta la mia forza e l’ho usata per prendere la decisione più folle e probabilmente più coraggiosa che avrei potuto mai prendere, e me ne sono andata più lontano che mai, su un’isola lontana che in un altro modo mi avrebbe privata di ogni residua energia, ma mi avrebbe regalato l’esperienza professionale e umana più tosta che potessi immaginare.
“Siamo progettati per sopravvivere a ben altri dolori”, mi diceva spesso una delle mie più care amiche in Italia, con parole un poco diverse da queste e che non ricordo bene. E me lo ripeto spesso, pur preventivamente come dicevo sopra, perché non c’è coltello, oggi, che minacci di ferirmi, non c’è pugnale alle mie spalle, tuttavia un certo qual tipo di istinto di sopravvivenza mi spinge a ricordare a me stessa, sempre e oggi ancor di più, che qualunque cosa accada, nulla mi ucciderà. Chiaro, se ho ancora la salute, vale a dire, la cosa per cui sono più grata al mondo, molto più che per tutte le altre cose più visibili e meno scontate.
Era già bella la mia vita, quella sera d’agosto, mentre sistemavo le panche di legno con il proprietario cileno del Kiosk e con il ragazzo siriano che era arrivato all’incontro prima di tutti per farmi compagnia e aspettare con me tutta l’altra gente. A un certo punto dovemmo aggiungere un tavolo mettendolo a L per non disturbare, e io mi spostai per cortesia per chiacchierare con l’ultimo arrivato, rimasto solo al tavolo appena aggiunto. Di quella conversazione in spagnolo decisamente forzata ricordo ben poco, anzi nulla. A quell’ora di quella sera d’estate non era ancora scritta la prima parola su questa pagina nuova. Ricordo solo che non aveva fatto ancora buio quando aggiungemmo il tavolo per lui. Ricordo che mi sentivo bene, un bene che spero di saper riacciuffare per il rotto della cuffia il giorno in cui dovessero crollare le costruzioni di legno costruite alla luce del mio cellulare in una stanza in quel momento ancora priva di una lampada che fosse una.
Ora in quella stanza una lampada c’è e presto anche un portalampada, incontrato per strada domenica sera non per caso, ma perché io gli occhi aperti ce li ho sempre. Mentre attraversavo la strada con in mano il portalampada ikea alto quanto me, una signora che attraversava in senso opposto si è congratulata con me per il “ritrovamento”, senza sapere che cosa vale per me quel portalampada e quanto timido e cauto sarà l’annuncio del suo conseguimento, una volta che il contatto telefonico sarà stato ristabilito.
Intanto, questo oggetto del non-desiderio giace un po’ ricurvo e abbacchiato su un vecchio tavolo nella nostra cantina, cantina che a questa storia ha già regalato uno scatolone pieno di utensili da cucina che hanno fruttato una felicità che si ripete ogni mattina, e sulla cui parete campeggia sfacciata una bandiera che non mi è mai piaciuta, che non so perché sia lì e che avrebbe dovuto da tempo mettermi in guardia da ciò che il destino aveva in serbo per me. È divertente guardarla adesso, quella bandiera beffarda, che in un certo senso mi sorride compiaciuta ogni volta che vado in cantina a depositare le bottiglie vuote di birra o gli scatoloni che uso per il foodsharing.
Che strana e buffa la vita, che sensazioni provo in queste settimane in cui mi ritrovo a ricordare a me stessa che una certa overdose di felicità me la sono meritata e me la merito tutta, come merito il diritto di dire di no alle persone che amano semplicemente approfittare della mia energia e di tutto ciò che ho costruito attorno a me. Che strana e buffa la mia vita che somiglia adesso a un mutuo a tasso variabile, una settimana quieta e una traboccante di emozioni, l’ho sempre detto che la vita mi piaceva così, da quando tra grandi mal di stomaco e dopo miei approfonditi studi negoziammo il mutuo per la casa che un tempo fu anche mia.
Che strana e buffa la vita che a un anno di distanza mi regala un nuovo fine settimana metropolitano che mi insegna che, nonostante tutto e forse proprio grazie a tutto quello che siamo stati, nonostante l’intimità con le persone che attraversano le nostre vite, le nostre case, le nostre notti e i nostri giorni, nonostante i viaggi intercontinentali, le sfuriate telefoniche inattese che causano fughe oltre la frontiera belga, i litigi con la security dello stadio e della metro, non c’è niente da fare e devo prenderla forse come una condanna, ma una cosa è certa: qualunque cosa accada, c’è una sola persona che davvero ogni giorno mi terrà per mano, mi manderà al diavolo ma mi terrà per mano, e ancora di più lo farà mentre alle sei di mattina cerchiamo di tornare a casa di un couchsurfer attraversando un parco deserto mentre Berlino cerca pian piano di svegliarsi.
Una persona che, come stasera mi ha detto un amico, si combina con me come in un ingranaggio: se non funziona uno dei due, funziona l’altro, in un incastro misterioso in cui ci teniamo sempre in piedi a vicenda, e vicendevolmente abbiamo imparato ad affidarci e a contare l’uno sull’altra. E sarà pure una condanna, ma è una condanna felice, essere una persona con cui vale davvero la pena di dividere la vita, nel bene e nel male. E così non ho più paura di perdere le poche persone a cui tengo davvero. E quelle che ho perso in un passato non troppo lontano, che nei miei peggiori incubi mi hanno lasciata sola sotto la pioggia con una inutile coperta di lana in un parcheggio trasformatosi in inferno di fango, quelle persone non mi avevano visto l’anima. O forse io non ero ancora io. Con tutto quello che ho costruito ad ogni passo da quando un giorno ho deciso che valeva la pena di ricominciare tutto da zero, tutto da me. E oggi posso solo essere orgogliosa di tutto quello che sono. E delle persone belle che scelgono di dividere la loro vita con me. Quelle con cui vale la pena di dividere la vita.
Un pensiero su “L’elefante di cemento”