Fuori è buio. Ma buio sul serio. Vivere qui ti dà la sensazione netta del passaggio delle stagioni. Ha fatto più caldo qui che in Italia, quest’estate, con punte di quasi quaranta gradi, e io ho caricato in macchina la bici e la tenda e me ne sono scappata su un’isola olandese bellissima e selvaggia, quasi senza alberi, con spiagge enormi, dune, migliaia di tedeschi e piattaforme petrolifere all’orizzonte, un’isola dove mi vedo bene a passare le estati della mia vecchiaia, da tedesca che sono diventata.
Ora fa buio e fa freddo e da qualche giorno mi sono arresa all’idea di dover accendere già il riscaldamento. Con la mia coinquilina italiana cerchiamo la giusta congiunzione astrale per far funzionare i termosifoni in un orario e a una temperatura che accontenti me, lei e il nostro coinquilino tedesco, ma abbiamo orari, vite e termostati corporei diversi e ci vorrà un po’ di diplomazia o forse il parere di un tecnico per risolvere il rompicapo.
Fa buio presto e improvvisamente lunedì mi sono accorta che la città somiglia a com’era un anno fa, quando non avevo un lavoro e passavo le notti sveglia in giro per i bar con un americano altrettanto disoccupato e che ormai da quattro, cinque mesi ha dovuto abbandonare il vecchio continente e fare ritorno oltreoceano. Ora che la città somiglia a com’era un anno fa, mi ritrovo a pensare che forse, svoltando l’angolo, incontrerò lui con la camicia a quadri e suo figlio col monopattino e il casco blu. E poi mi ricordo che entrambi non abitano più qui, e probabilmente per sempre. Ma questa è un’altra storia.
Fa buio presto e sono a casa malata da martedì, quando sono tornata dal turno delle sei di mattina al lavoro e mi sono buttata nel letto in uno stato pietoso e ho rapidamente capito che dovevo mettermi in malattia e annullare tutti gli impegni per almeno tre o quattro giorni. E dopo un attimo di panico della serie, come farà il mondo senza di me?, sono stata felice di poter avere una ragione per dire di no a tutto. Per coincidenza, o forse no, la nuova ragazza del mio amico e compagno di mille avventure, ragazza che per fortuna mi vuole bene come nessuna in precedenza, martedì stesso mi ha regalato un libro dal titolo alquanto intraducibile, ma che in sostanza è un invito a smetterla di tentare di accollarsi i destini del mondo e di prendere tutto troppo sul serio. Il messaggio che mando a me stessa da tempo interminabile, ma che di città in città, di vita in vita, finisco per rinnegare. Il mio telefono, ogni giorno, contiene una sequenza di richieste di favori e di aiuti vari, o di “ciao, come stai?”, cui fa seguito, dopo la mia risposta, una richiesta di aiuto o favore o informazione, tanto è vero che mi stupisco decisamente quando qualcuno che non sentivo da tanto, come un ex collega skater ventenne che scriveva testi per il sito dell’azienda dove lavoravo prima e a cui portavo sempre le cose del Foodsharing che altri colleghi snob rifiutavano per paura di sembrare poveri, mi scrive dopo un anno solo per chiedere come sto e raccontarmi della sua nuova vita berlinese con la sua ragazza.
A proposito di Berlino: quest’estate c’era tanta luce e tanto sole e qualcosa mi ha spinta a viaggiare ogni volta che il mio orario di lavoro settimanale mi regalava tre o quattro giorni liberi uno in fila all’altro. Berlino, Monaco, Düsseldorf, Colonia, le Ardenne, la costa olandese: semplicemente prendere e andare, non l’avevo fatto quasi mai finora da quando vivo qua, soprattutto perché la vita in questa città mi ha sempre intrappolata, in senso buono, in un vortice di appuntamenti, feste, incontri, cene e inviti a cui non avevo nessuna voglia di dire di no. È successo poi che questa, per molti, è una città di passaggio, ed è successo che cinque delle sei persone più care che ho qui se ne sono andate altrove o stanno per farlo. Le persone che costituivano la spina dorsale della mia vita qui e che mi facevano aspettare con gioia il fine settimana o che mi facevano compagnia in serate infrasettimanali improvvisate o pomeriggi estivi al canale.
E poi la casa dei miei amici irlandesi, la casa dove facevamo le feste più epiche a cui abbia mai partecipato, dove ho festeggiato il mio primo compleanno in questa città circondata da molta più gente di quanto potessi immaginare, dove si sono svolti tornei di biliardo e di badminton, dove abbiamo festeggiato il natale, l’Oktoberfest e San Patrizio, molti compleanni e molte partenze e qualche mese fa celebrato anche un amarissimo funerale, quella casa non esiste più. Poco meno di un anno fa, qualche giorno prima di natale e dopo la notte in cui avevo imparato, più che altro per sfinimento, a giocare a biliardo, il mio amico irlandese mi chiamò in soccorso perché la padrona di casa stava arrivando per parlargli, e io avrei potuto fargli da supporto linguistico e aiutarlo anche a mantenere la calma. La proprietaria dell’immobile, in una scena degna della crudeltà che caratterizza la categoria dei ricchi e spocchiosi palazzinari della zona, che vivono in ville architettonicamente sofisticate su quella riva del lago su cui raramente ci troviamo per un barbecue, si era presentata a pochi giorni dal natale ad annunciare uno sfratto, da eseguirsi nel giro di tre mesi, dovuto alla decisione di demolire la casa in cui la nostra storta “comunità internazionale” tanto aveva condiviso, e fare posto a una palazzina con sei appartamenti, che avrebbe portato nelle tasche dei proprietari un introito ben maggiore – probabilmente circa il triplo di quello finora ottenuto affittando al mio amico irlandese e alla banda di coinquilini americani, brasiliani, italiani, inglesi, francesi, polacchi, danesi, tedeschi e così via, che nel corso degli anni si sono dati il cambio nelle tante stanze di quella dimora.
Lo sfratto, pur rinviato di sei mesi grazie all’aiuto di generosi conoscenti avvocati e a una buona strategia, è infine avvenuto pochi giorni fa. Nel corso dei frenetici ultimi giorni, insieme a pochi dei tanti che avevano popolato quelle feste, ho aiutato l’amico irlandese a disfarsi delle enormi quantità di cose che riempivano le stanze di quella casa. Vendute alcune cose, regalate altre – persino l’amatissimo tavolo da biliardo che solo all’ultimo momento, un’ora prima che avvenisse la riconsegna delle chiavi, ha trovato posto, per ora smontato, nei sotterranei di una residenza universitaria – abbiamo dovuto portare in discarica il contenuto di diversi furgoni carichi in parte di roba vecchia e inutilizzabile, in parte di roba buona, ma che nessuno poteva o voleva conservare. Di quella casa mi restano dei pennarelli per la lavagna bianca del nostro evento di lingue, un apribottiglie con contenitore per tappi da appendere al muro (ormai rotto, ma spero di ripararlo e appenderlo in ricordo delle feste di un tempo), un poggiapiedi che in fondo non mi serve, una parrucca rosa che a carnevale non si sa mai, uno sgabello pieghevole da campeggio e una piccola cassettiera, che ora fa da appoggio per le belle piante di peperoncino nate e diventate grandi e rigogliose nel corso di questa strana e bella estate.
Nel guardare il container della discarica fare a pezzi il grande divano del soggiorno e la grande e comoda sedia da ufficio, nel buttare nel container del metallo il piccolo barbecue rosso inaugurato solo tre mesi prima, nel depositare nel cassone degli elettrodomestici due stampanti perfettamente funzionanti e con tanto di imballaggio originale, io e l’ex coinquilino del mio amico, un tedesco che ha vissuto in Italia e che un tempo voleva diventare prete, ci siamo chiesti – e me ne ricordo morendo dalla fatica ad ogni trasloco – perché ci affanniamo tanto ad accumulare cose che a un certo punto, in un modo o nell’altro, non potremo o non vorremo più portare con noi. Quante cose a cui tengo sono rimaste in Italia, e non riuscirò probabilmente mai a portarle qui, perché non mi fido a spedirle in aereo o per posta o pesano troppo. Una volta, un po’ di mesi fa, ho sognato che una scatola rossa in cui ho conservato tante piccole cianfrusaglie e ricordi di tanti diversi momenti stratificati lungo la mia vita fatta di ormai quattro decenni compiuti quasi per intero, naufragava portata via da un’onda durante una tempesta che distruggeva le vetrate di una bellissima stanza sul mare di un posto che non ho mai visto, ma che somigliava un po’ al mare di casa. Mi sono svegliata disperata, per poi accorgermi che era solo un sogno, che la scatola è ancora a casa dei miei e che comunque, da anni a questa parte, non è che l’abbia mai riaperta. Anche perché il tempo è sempre poco e c’è sempre qualcos’altro da fare che non sia buttarsi a capofitto nei ricordi.
Alle quattro di pomeriggio del lunedì della scorsa settimana, troppo impegnata a guidare il furgone che portava via il tavolo da biliardo (che, lo sapevate? pesa più di 400 chili), ho lasciato per l’ultima volta la grande casa senza avere il tempo di dirle addio per bene. No, non era la mia casa, ma era come se lo fosse, come ho dovuto spiegare qualche settimana fa in Italia al bimbo dei miei amici, che dopo aver ascoltato la vicenda da me raccontata ai genitori, ha domandato preoccupato: e adesso che torni in Germania, ce l’hai un posto per dormire?
Inizieranno altre vite per tutti, anzi, sono già iniziate. Il mio amico irlandese è qui ancora per poco, accampato nella casa in fase di smantellamento di un altro amico che sta per lasciare la città per trasferirsi per lavoro altrove. Stasera ci scriviamo nel gruppo whatsapp la cui attuale immagine del profilo è una foto della grande casa in una giornata di sole, e ci rendiamo conto di essere ormai sparsi in tante città diverse in giro per l’Europa o ancora più lontano.
Inizieranno altre vite e si incontreranno nuove persone. Intanto si chiude una pagina, io resto qui e la mia vita qui non sarà più la stessa. Erano passati solo sette giorni dal mio arrivo qui quando varcai per la prima volta la soglia di quella casa. Era anche la sera in cui il tedesco che parla italiano e che voleva farsi prete veniva convocato per un colloquio in orario notturno, e accettato come nuovo coinquilino, nel mezzo di una serata con chitarre, percussioni e birra. In quelle settimane nacquero piccoli gruppi whatsapp da cui sarebbero nati incontri che avrebbero dato vita a reti che tuttora connettono centinaia di persone in questa città. La mia vita qui, fino ad oggi, è stata fatta di queste persone, amiche, e di altre che col tempo ho imparato a distinguere come null’altro che conoscenti di passaggio. Troppo lunga è la lista delle avventure che abbiamo condiviso, dei viaggi, delle notti in bianco, dei pianti, dei litigi, dei festival, delle canzoni cantate senza ritegno, di tutta la vita vissuta senza filtro con persone che ho imparato a chiamare amici anche perché non giudicano, mai. Ogni minuto mi vengono in mente nuovi ricordi, compresi quelli che non si possono raccontare, o che sarebbe troppo complicato raccontare. Con queste persone mi sono sentita libera come non ero mai stata – senza essere mai sola.
Mentre le giornate si accorciano alla velocità della luce e io passo le giornate chiusa in casa e incollata al divano nell’attesa tutt’altro che spasmodica che mi passi questa specie di influenza, non ho fretta di trasformare qualcuna delle tantissime superficiali conoscenze che mi circondano in nuovi e artificiali tentativi di amicizia. Sarò diventata profondamente tedesca come dicono i miei fratelli, ma ora apprezzo il fatto che in tedesco esistano parole ben distinte per definire gli amici, i conoscenti o i compagni di qualche tipo di attività come lo sport o le feste. Arriveranno certamente persone nuove per cui varrà di nuovo la pena di usare questa parola. Intanto sono felice di avere avuto l’onore di condividere un pezzo di strada con questi personaggi straordinari, generosi, sinceri e folli e di aver fatto, anche grazie a loro, di questa città la mia casa. In attesa di nuovi tempi, approfitto di queste giornate di quiete per prepararmi per un viaggio che tra quattro settimane mi porterà per la prima volta dall’altra parte dell’oceano. Ma anche questa è un’altra storia.