Isole

Il viaggio di ritorno, spesso, è come un nastro che si riavvolge.

Solo che oggi c’è un’altra luce, diversa, solo che ora noti tanti dettagli in più, solo che ciò che prima era estraneo oggi è familiare, il molo di Moskenes, i cartelli stradali, i pochi negozi (due, per l’esattezza) lungo la strada, i profili delle montagne e della costa, le barche parcheggiate, ogni curva di quei cinque chilometri che hai percorso mille volte in dodici giorni, in autostop, a piedi, in una macchina presa in prestito e una volta eccezionalmente persino in bus, sotto il diluvio, nella nebbia, nel mezzo buio di mezzanotte, e forse una volta o due anche sotto una parvenza di sole. Continua a leggere

Il grande giro delle Lofoten in trenta ore di autostop

Sono le otto e mezza di una sera senza vento quando arrivo alla porta dell’ostello di Stamsund. C’è un cartello, scritto in prima persona come molti altri nell’ostello, che invita a bussare o chiamare il numero 6 con una specie di citofono, e pazientare perché, scrive Roar, il proprietario, “it might take a bit time”. E infatti Roar mi dice di accomodarmi nella cucina-sala comune e aspettarlo lì. Meno male, perché sono sfinita e lo zaino è pesante.
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È ora che io vada

Quella passata è stata una notte di vento e insonnia. Tanto vento e tanta pioggia. Di solito qui la pioggia è fitta, costante e silenziosa, invece stanotte sbatteva alle finestre dell’ostello, bussava alle porte per entrare. Ho faticato a prendere sonno e mi sono svegliata dopo meno di due ore con una luce che sembrava delle sette di un mattino piovoso ed erano le quattro e mezza. Una delle mie compagne di stanza, una diciottenne tedesca che è in viaggio da sola in Scandinavia da sei settimane e che scrive cartoline alla mamma e al suo ex con cui non parla più, avrebbe dovuto svegliarmi nel cuore della notte per vedere l’alba, ma altro che alba con queste nuvole. Alle otto e un quarto tutto l’ostello di Å, o per lo meno tutti coloro che dormivano nell’edificio del museo – in effetti quello di Å è una specie di “ostello diffuso” che occupa diversi edifici di questo villaggio di pescatori – erano in piedi: “hai dormito, tu? Io no”. “Neanche io”. Tutti così. È un sollievo non essere la sola con queste occhiaie, pensavo che l’insonnia fosse dovuta al pensiero che il ritorno a casa si avvicina, ma in effetti non dev’essere così.
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Aspettando il sole

La sera, se il cielo si apre, anche se per tutto il giorno non ha fatto altro che piovere, c’è sempre qualcuno che mette la tenda sulla scogliera dove finisce la strada, magari proprio sull’orlo della scogliera, così la scena è più fotogenica per i tanti che non si arrischiano a campeggiare, ma che arrivano qui con la macchina fotografica a portarsi via un ricordo delle onde che s’infrangono sull’isolotto laggiù, quello dove c’è un cartello scassato che, visto da qui, non dice niente.
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La bellezza inconsapevole

Ogni sera alle otto Kari va al molo dove attracca il traghetto che arriva a Røst da Bodø e riparte in direzione Lofoten. Aspetta lo sbarco dei passeggeri e poi se ne torna a casa, dall’altra parte del canale, sulla sua barchetta a motore. Aspetta. Dice che aspetta una persona che abita in una casa da quelle parti, qualcuno che qualche giorno fa è partito e non sa quando tornerà, e lei lo aspetta perché gli deve parlare.
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Cartolina da qui

[English below]

Lofoten. Ne avrei, di storie da raccontare, storie di un turismo che tutto sommato non ha (ancora) devastato questo arcipelago, di un’invasione agostana di italiani che fornisce tanto di quel materiale narrativo che ci potresti scrivere un libro, ma anche storie di autostop, camper, furgoni e tende, barche e traghetti, pareti immense di granito e voglia di arrampicare, antiche panetterie e pesci appesi a essiccare, notti in spiaggia e pomeriggi in ostello, ma è un’estate piovosa da queste parti e ahimè ce ne saranno, di occasioni per stare al riparo e al calduccio a scrivere. Quando c’è il sole, invece, c’è solo da andare là fuori.
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Libertà

Il fatto è che prima di partire non ho “studiato”. O, meglio, ho studiato il minimo indispensabile per arrivare fino alle Lofoten. E poi, da lì, vedremo, we can take it from there, come dicono gli inglesi con un’espressione che per qualche ragione mi piace un sacco. E così, quando Terje mi dice: non importa se piove, devi vedere Saltstraumen, andiamo!, io non so di cosa stia parlando.
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La febbre del sabato sera

Narvik, siamo in arrivo nella stazione di Narvik, this is the end of the line, capolinea. L’annuncio del capotreno, dopo 23 ore e 25 minuti di viaggio, è una liberazione. Il viaggio non è stato eccezionale, salvo forse per l’eccezionale numero di ore di sonno che sono riuscita a concedermi, era una vita che non dormivo così. Un couchsurfer di Narvik con cui avevo scambiato un paio di messaggi l’altro giorno mi diceva che negli ultimi 45 minuti di viaggio (gli unici in territorio norvegese, questa linea ferroviaria è svedese e sconfina in Norvegia solo per un breve tratto) avrei potuto ammirare dal finestrino un paesaggio maestoso. E invece solo nebbia e così ho solo intravisto fiordi e gole.
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Da cielo a cielo

Le nove e un quarto di un mattino grigio d’inizio agosto. Un treno che da ormai quindici ore percorre a sessanta, settanta chilometri all’ora tutta la Svezia da sud verso nord. Ho un posto finestrino ma il paesaggio là fuori è alquanto monotono. Alberi dai tronchi sottili, i rari centri abitati con le loro piccole stazioni, qualche lago sulle cui rive sono parcheggiate due o tre canoe, unico elemento di colore tra un cielo grigio e un paesaggio sbiadito.
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