Era bellissimo, il tempo, in quella sera norvegese di inizio luglio. Così bello che il meteo annunciava clear sky, cielo sereno, per la tarda serata. Un evento raro, e per l’occasione stavo programmando un vero e proprio azzardo: volevo prendere in prestito quel catorcio indegno dello status di furgoncino che utilizzavamo per le pulizie dell’ostello, e andare a vedere il sole di mezzanotte dall’altro lato della costa.
Il furgoncino scassato è una costante degli ostelli in cui ho lavorato, addirittura il furgoncino a disposizione dei volontari dell’ostello in Spagna non aveva il sedile del passeggero, e quello del guidatore non si spostava in avanti, ragion per cui per guidare dovevo sedermi sulla punta del sedile e sperare di riuscire a raggiungere i pedali. Il furgoncino norvegese, invece, quando sono arrivata a maggio aveva il freno a mano rotto, un disastro in un posto tutto salite e discese, compreso l’accesso all’ostello e a ogni singola casa. E così non mi ero stupita per niente quando in un pomeriggio di maggio il mio capo mi aveva telefonato dal centro urbano a un’ora e mezza dal villaggio, per dirmi che sorprendentemente il furgoncino non aveva passato la revisione e doveva restare lì in quarantena per un po’. Poi il freno a mano era stato riparato, ma tutto il resto no, e così per tutta l’estate il furgoncino aveva continuato a emettere un orrendo sibilo che ne annunciava l’arrivo già a qualche centinaio di metri di distanza. Ed essendo il sibilo, almeno nel mio immaginario, sintomo di imminente rottura del mezzo, portare a spasso il furgoncino per quarantacinque minuti di strada, di notte (con la luce del giorno, sì, ma senza il traffico dell’ora di punta), nella speranza che quel clear sky del meteo fosse una promessa e non un’illusione, suonava come una pazzia, ma una pazzia che andava fatta.