A tale of mortgages, climbing shoes, and things left behind

[Versione italiana qui]

On Saturday afternoon I was walking through the city centre, wearing my beloved FC Bayern jersey, enjoying the rays of light of such a wonderfully warm October day, happily greeting numerous friends and acquaintances along the way. I was walking fast to reach the place where we were going to watch the Bundesliga match, so I could not stop and chat with anyone for more than one minute. I was hopeful that we would win and put an end to a short but painful series of disappointing matches. Continua a leggere

Tutta la vita davanti

Stasera me ne stavo seduta nel posto più sicuro che conosco per passare la sera del mio compleanno – sui materassoni della palestra di arrampicata – il posto più sicuro del mondo, se sopravvivi al più simpaticamente maligno dei tuoi compagni, quello a cui piacciono le sfide, che ti sfida a portare a casa finalmente quella via fatta solo di sei prese attaccate sotto un tetto, con la partenza senza piedi. E tu non hai più scuse, perché lui si presta pure a farti da gradino con le mani per aiutarti a raggiungere la presa di partenza altissima. E quasi riesci ad arrivare all’ultima presa, ma poi ovviamente alla penultima cadi di una caduta così rovinosa e scomposta che ti dici maledizione, chi me l’ha fatto fare, c’ho tante di quelle cose da fare nei prossimi giorni, e se ora mi sono fatta male e mi si gonfia la caviglia? (Per fortuna sto bene, non è successo niente, la caduta era tutta scena e non mi fa più male niente.)

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Fuori luogo

Esco di casa in bici per andare al colloquio introduttivo con l’insegnante di spagnolo dell’università popolare. Sono in ritardo. L’orario di ricevimento è di due ore, e quando monto in sella alla bici mancano solo venti minuti alla fine della seconda ora. Sì che l’insegnante non è tedesco, avrà pazienza, ma siamo pur sempre in Germania e gli orari di lavoro qui si rispettano. Il che, in sé, non è una cosa cattiva. In un certo senso, qui spesso quando scatta l’orario di chiusura o di fine turno, al lavoratore “je cade la penna”, come diceva anni fa una collega nel mio vecchio lavoro. Ovvero lascia tutto com’è, come in un fermo immagine, e se ne va a casa. In tedesco c’è un’espressione apposita per questo momento, Feierabend machen, che qui trovate spiegata magistralmente in italiano.

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Il mio rifugio

Le palestre di arrampicata si nascondono di solito negli angoli più umidi e scuri delle periferie delle città, di ogni città, piccola o grande, in cui mi sono affacciata. Si nascondono, è il caso di dirlo, l’insegna di solito c’è, ma la noterai solo quando ormai sei praticamente arrivato all’ingresso. Qui la palestra di arrampicata, anzi di bouldering, perché la parete alta per scalare con la corda non c’è, esiste solo da due anni, quindi è ancora abbastanza una novità, ma nonostante si nasconda tra capannoni, silos, canali e parcheggi deserti, mi pare essere un luogo in cui si ritrova moltissima della gente più interessante che ho conosciuto in questi mesi. Come ho letto in un articolo ultimamente, probabilmente è solo perché la palestra di bouldering sta diventando un’alternativa alla palestra normale, al fitness. Dubito che la maggior parte di queste persone abbia mai visto o vedrà mai una corda o una falesia. Ma forse il tempo mi smentirà.

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Io mi sto preparando

Il miracolo di questo giovedì pomeriggio è che alle cinque e venti, mentre varco la soglia del portoncino di casa con le buste del bucato fatte in lavanderia a gettoni, in cielo c’è ancora un po’ di luce, e intanto brilla addirittura qua e là una stella.

Dopo il tramonto spettacolare di una settimana esatta fa, e fino a stamattina, il cielo era stato ininterrottamente nascosto là dietro a uno strato spesso di qualcosa che non avevo mai visto, un blocco uniforme di cemento che ti separa dal cielo, dall’aria, dalle stelle. Uno strato così spesso che anche di notte il cielo non si fa così scuro, perché le luci della città gli rimbalzano contro. No, non ho mai vissuto in pianura padana, no, non lo sapevo cosa volesse dire quando il sole non si fa vedere per una settimana, a Roma d’inverno veniva a piovere a secchiate violente ma poi tornava il sereno e spesso, nei pomeriggi d’inverno, dall’enorme finestra del mio ufficio, rimanevo ipnotizzata a guardare e fotografare un cielo sempre diverso, che faceva da sfondo al pino, (sempre lo stesso pino, ironizzava una cara collega), delle mie fotografie. Continua a leggere

Dietro la prossima curva

“Gira appena possibile. Gira appena possibile”, mi intima, con la calma di un rapinatore svogliato, il navigatore offline e per ora ancora gratuito che ho installato sul tablet. Doveva essere gratuito per due settimane e invece è quasi un mese che funziona senza pagamento e senza proteste. Mi aspetto che smetta di funzionare all’improvviso mentre mi trovo in un posto sperduto, senza indicazioni e senza accesso a internet. In ogni caso, appena ne avrò occasione avrei voglia di comprare un bellissimo e dettagliatissimo atlante stradale, un oggetto d’altri tempi, il cui desiderio in me si alimenta da quando, l’estate scorsa, facevo l’autostop con in tasca una piccola cartina stradale strappata da qualche dépliant turistico. Il problema è che l’atlante stradale invecchia più in fretta di un navigatore, e non ti parla mentre guidi, quindi ti costringe a fermarti per consultarlo. Ma tanto io mi fermo lo stesso per fare una foto in ogni piazzola a bordo strada, e quindi non fa niente.
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Il cartello giallo

Sull’autostrada, dalle parti di Alicante, c’è un grosso cartello giallo – anzi, due cartelli – con scritte in spagnolo e arabo, e il disegno di un traghetto. Le scritte dicono Almeria, città andalusa e antico porto del califfato di Cordoba, e poi Marruecos, Marocco, e un altro nome che non ricordo. Puntano verso sud. Puntano a terre che tra tre mesi potrebbero essere troppo calde per i miei gusti e a una costa che guarda all’Africa. Continua a leggere

Il dopolavoro

L’eccitazione che travolge l’arrampicatore romano quando sta per scattare l’ora legale e si può ricominciare a fare la pomeridiana. Ovvero prendersi un pomeriggio libero dal lavoro per andare a scalare in falesia. Scappare dall’ufficio come un ladro (ma con regolare permesso, s’intende) all’ora di pranzo, correre in scooter o macchina all’appuntamento in palestra o al parcheggio di un ipermercato, il cosiddetto Rusticone, tre quarti d’ora, massimo un’ora e un quarto di macchina e poi a giù a scalare fino a che il sole non sarà bello che tramontato, sfruttando ogni secondo di questo pomeriggio rubato alla giacca, alla cravatta, al computer, alle mail, alle riunioni o a quello che è. Mi piacevano tanto le pomeridiane quand’ero a Roma, così tanto che a un certo punto mi ero fatta cambiare l’orario di lavoro apposta.

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Dichiarazione d’amore

Pietrasecca. La falesia di casa, le fughe rapide dal lavoro nei pomeriggi d’estate, le ore piccole nelle sere di luglio che alle nove di sera sei ancora in parete e sul sentiero è già buio pesto, i tramonti di dicembre, le mattine d’inverno che arrivi quando non c’è nessuno e fa ancora freddo, ti fai scaldare dal primo sole e all’ora di pranzo sei già a casa. Continua a leggere

Il grande giro delle Lofoten in trenta ore di autostop

Sono le otto e mezza di una sera senza vento quando arrivo alla porta dell’ostello di Stamsund. C’è un cartello, scritto in prima persona come molti altri nell’ostello, che invita a bussare o chiamare il numero 6 con una specie di citofono, e pazientare perché, scrive Roar, il proprietario, “it might take a bit time”. E infatti Roar mi dice di accomodarmi nella cucina-sala comune e aspettarlo lì. Meno male, perché sono sfinita e lo zaino è pesante.
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