Le scarpe da trekking

Sono passati due lunghi anni. La mia schiena non è più la stessa di una volta, il che esclude la possibilità di fare l’autostop. Inaspettatamente, non si mette più la mascherina neanche al supermercato, ma solo in ufficio, o dal medico, o in autobus.

Oggi, anzi ieri, ho rimesso le scarpe da trekking, che per fortuna non puzzano, né di noia, né di abbandono. Ho lasciato perdere i doveri, quelli non necessari, gli obblighi sociali, le vespe, la partita, il barbecue di compleanno. Ho camminato per cinque chilometri e mezzo dopo aver pensato di fare solo quattrocento metri, tanto ero stanca dopo aver lavorato, sia pure a distanza, ma con la solita frenesia multilingue, questa mattina.

Oggi pomeriggio mi faceva male il collo, come sempre, mi fa male anche adesso, mentre mangio la frittata di uova salvate al mercato, posso solo sperare che siano ancora buone e che non mi rovinino il resto della mia breve vacanza.

Ecco una delle mie tante paure, come quella di addentrarmi da sola nel bosco, il tizio col sidecar vicino al lago che mi fa male all’orecchio con il suono del tubo di scappamento per spaventarmi, la processionaria, le zecche, la tenda smontata della cucina, la batteria scarica della macchina fotografica e non ho portato il caricabatterie…

Ne è passato, di tempo, e questi anni hanno alimentato paure spesso inutili e mi hanno fatto dimenticare il fascino della scoperta, dell’uscire dal seminato, senza un programma, come questo blog.

La frittata è buona, il tizio col sidecar non è ripassato, il dolore al collo domani non si farà più sentire, la batteria della macchina fotografica mi basterà per il resto della vacanza, mi è bastato un attimo di lucidità per rimettere a posto la tenda e prima di farmi la doccia non ho trovato nessuna zecca tra le pieghe del ginocchio o in altri prevedibili nascondigli.

Ho sonno, ma sono felice di questo tuffo. Tuffo nel passato, tuffo nel futuro, tuffo nella ricerca di un posto dove vivere in cui i rumori là fuori alla finestra non mi sveglino ogni notte, in cui un po’ di solitudine in più sia il prezzo da pagare per una lavastoviglie e un frigorifero pieni di cose solo mie, un posto in cui ci sia silenzio e una tranquillità che ho dimenticato, per via dei maledetti cantieri di chi ha sete di trasformare ogni angolo della mia bella città in nome del dio denaro.

Ora che ho scoperto che posso prendere e partire – per qualche giorno, per lo meno – senza chiedere il permesso, ora che mi sono ricordata che nel bosco non si nascondono mostri, ma forse solo sentieri fangosi, lumache giganti e percorsi che non portano al belvedere sperato, ora che ho lasciato il cuore davanti all’antica lavanderia del villaggio che fino all’inizio degli anni Settanta non aveva l’acqua corrente nelle case, mi sono ricordata – finalmente! – che là fuori ce n’è, eccome, da scoprire, anche se la schiena fa male, anche se ho tanto da fare, ma è proprio quel senso di scoperta che mi ricaricherà le batterie, di nuovo, e ancora una volta, come ormai tanti anni fa, se mi decido a fare un paio di passi in più, dietro la prossima curva.

Mala noche

Stavo tornando a casa dopo una notte non delle migliori, anche se di peggiori ce ne sono state, eccome. Tornavo a casa a piedi perché già ho imparato a non uscire in bici quando c’è di mezzo una festa. Ho detto buonanotte a una compagnia fatta di una ragazza che si è ubriacata per la tristezza del suo cuore spezzato da uno che se ne approfitta soltanto, di due uomini che si contendono la mia amica che tra quattro giorni parte e che alla fine penso se ne andrà a casa da sola, e di una diciannovenne che il mio amico quindici anni più vecchio di lei si porterà a casa stasera, solo poche ore dopo essersi accomiatato da una di lei connazionale che ha passato quattro giorni di vacanza a casa di lui (e un poco a casa mia) immaginando probabilmente di essere in un porto sicuro tra le braccia di qualcuno che la capisce, conosce la sua terra, e invece.

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Musica per gli occhi

In un pomeriggio di pioggia in cui nessuno vuole tornarsene a casa ci troviamo tutti insieme, un polacco, una messicana, un texano, un’italiana, un bengalese e un tedesco, a mangiare l’ultimo gelato di questa lunga estate ormai (giustamente) sconfinata in un grigio autunno, e tu hai la febbre e non hai una giacca se non la felpa con cappuccio presa in prestito da un mio amico in una notte gelida ma felice lo scorso fine settimana. Come sono stata felice, quella sera, anche se non ricordo tutto. Mercoledì, poco prima di andare a mangiare il gelato, ho incontrato un’altra foodsaver e mi ha detto: ci siamo viste davanti al supermercato, venerdì sera, stavate parlando in inglese con un senzatetto, noi avevamo fretta, ma voi sembravate felici.

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Arrivederci estate

Mezzogiorno. La mia amica in visita dorme nella mia stanza, distrutta dalla notte di ieri, mentre io faccio colazione in cucina con latte e biscotti italiani come quelli di casa della nonna. Questa casa mi piace ancora di più da quando possiamo tenere le finestre spalancate ed entra solo il sole, un educato cinguettio e a volte qualche voce che si gode il bel tempo in giardino.
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L’ostello delle anime

Sabato è stato il primo vero giorno di sole dell’anno. La sensazione che si prova nell’accorgersi di potersi togliere la giacca, almeno per qualche ora, almeno al sole, è qualcosa che solo chi vive a queste latitudini può capire. Perché qui l’inverno è interminabile e buio, ma poi la primavera e l’estate, in un certo senso, arrivano, con la promessa di lasciarci indossare davvero i pantaloni corti e i vestiti leggeri e di farci fare festa all’aperto fino a tardi con la luce del giorno.

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E se hai freddo alle mani prendi le mie mani

Fuori è una domenica gelida e luminosa e io per ora la onoro godendomi il riscaldamento e il sole che illumina il mio divano. Ieri al mercato faceva così freddo che a poco è servito il burrocacao, sopra il labbro ho una macchia di pelle che si è seccata al punto di far male. Faceva freddo da morire mentre con gli altri foodsharer mettevo ordine tra le cassette di frutta e verdura ricevute dalle bancarelle che, invece di buttare la roba-quasi-vecchia, la danno a noi, e siccome non è che puoi toccare frutta e verdura con i guanti di lana, dopo mezz’ora a furia di star nude senza guanti, le punte delle dita erano quasi viola e quasi congelate e facevano male anche loro. Continua a leggere

Una catena di regali

Dopo una serie di prove teoriche e pratiche (comprese le ovvie difficoltà con le complessità della lingua tedesca), immaginate di ricevere un tesserino che vi permette, come membro di un’organizzazione no profit che combatte gli sprechi alimentari, di andare, previo appuntamento, a recuperare le cose da mangiare che ristoranti, negozi, supermercati e bar altrimenti butterebbero via.

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La cesta del tesoro

Il pomodoro che mi guarda dal banco del supermercato alle nove e mezza di questo tiepido giovedì sera ha una faccia più pulita o forse più perfetta, ma ben più triste, del pomodoro un po’ più rosso, più morbido e a volte ammaccato che mi porto a casa nelle mie borse di tela verdi dopo averlo raccolto e “adottato” dalle ceste del Foodsharing di Josh, che tre-quattro sere a settimana ci apre le porte di casa sua per regalarci, prima di andare a dormire, il suo “raccolto” quotidiano: pane, frutta, verdura, a volte affettati, salse, piatti pronti del banco gastronomia, qualche sera fa persino una burrata. Continua a leggere