Le undici di sera all’ostello di Broddanes. Là fuori, oltre le grandi vetrate, un tramonto spettacolare si insinua tra la costa di fronte, quella di Strandir, e quella del promontorio all’estremo nord, disabitato e inospitale, Hornstrandir. La vetrata non è pulitissima e così esco a scattare delle foto all’esterno, forte della protezione, fornitami dalla signora dell’ostello, del cappello-elmetto anti-sterne artiche, che in questo modo non dovrebbero poterti colpire alla testa. Le sterne, però, indispettite dal trucchetto, decidono di esprimere il loro disappunto cercando di colpirmi con la loro arma alternativa: una pioggia scrosciante di escrementi. Mi scanso non so come e mi ritiro sconfitta in ostello.

Alle undici e mezza la signora, che ha delle orrende sopracciglia disegnate, è ancora in servizio, anche se la reception chiuderebbe alle dieci. Ci sono quattro italiani in ritardo, hanno avvisato che sarebbero arrivati alle undici. La signora aspetta paziente, io le spiego che in linea di massima non siamo un popolo di puntuali. La porta dell’ostello si apre, ma al posto dei quattro si presenta un tedesco piuttosto sconvolto che dice di essere arrivato in autostop e chiede di piantare la tenda fuori all’ostello, perché ha paura a campeggiare dove non c’è nessuno. Segue trattativa sul prezzo per permettere al tedesco di usare bagno e cucina e piantare la tenda. Nessuno dei due parla un buon inglese e così la trattativa si arena sul fatto che lui non ha realizzato che in Islanda si paga col bancomat per qualunque cosa in qualunque posto, e dice alla signora che ha pochissimi contanti. La signora, intanto, non ha capito che il tizio è un autostoppista, cosa che per lei fa differenza, e soprattutto fatica ancora a spiegarsi come mai i quattro italiani si siano smaterializzati e trasformati in questo strano soggetto. Fortunatamente per lui, alla fine l’accordo è raggiunto, forse facilitato dall’arrivo dei miei connazionali, un deciso sollievo per la signora sempre più basita.

I quattro, lombardi, mi raccontano di aver trovato il tedesco spaesato che camminava col suo grande zaino nel freddo e nel vento della tarda sera, su una strada dove a una cert’ora non passa più nessuno. Io, dopo la domanda di rito (ma sei da sola? Con venti punti interrogativi) racconto loro che anche io sto viaggiando in autostop, ma francamente mi guarderei bene dell’avventurarmi su una strada secondaria, col vento artico per di più, dopo una certa ora. Scambio due parole con l’autostoppista prima che vada a montare la tenda, e scopro che non ha idea di dove si trova e non sa bene che fare. Sarà solo per la stanchezza, ma dimostra una cinquantina d’anni e non sembra aver viaggiato in questo modo prima.

Al risveglio fa freddo, mi tiro fuori molto a fatica dal sacco a pelo e mi sento accerchiata da portatori di energie negative. Non il massimo, dovendo affrontare un viaggio di un centinaio di chilometri per le strade impervie e sperdute della regione di Strandir, per arrivare alla mia ultima meta, a lungo agognata, Djupavík. L’americano, unico altro ospite della camerata, sembra dormire ancora, avvolto nel piumone nelle cui pieghe ha trascorso anche buona parte del pomeriggio di ieri. È solo in macchina e avevo pensato, se come credo va da quella parte, di provare a chiedergli un passaggio a Holmavìk, trenta chilometri da qui e tappa intermedia del mio viaggio di oggi. Mi accorgo dopo un po’, però, che è andato via, lasciando il piumone esattamente con la forma che aveva quando lui ci dormiva dentro. I quattro italiani, che ieri sera mi hanno chiesto svariati consigli per il giro dei fiordi, vanno via senza salutare né chiedermi se possono darmi un passaggio. E la signora dalle sopracciglia disegnate mi dà il buongiorno e mi chiede perplessa: davvero non hai la macchina? Guarda che qui sulla strada non passa nessuno. Ma io ho monitorato il traffico ieri pomeriggio facendo una passeggiata e non credo ci saranno problemi, al massimo un po’ di attesa.

E poi l’autostoppista tedesco. Non riesco a offrirgli un caffè né pane e Nutella, ma quando gli propongo di prendere un po’ della mia frutta la prende quasi tutta, lasciandomi solo due mandarini. Salutista, direi. Mi riempie di domande e mi rendo conto che gli mancano proprio le basi per intraprendere questo viaggio, per lui appena cominciato. Gli spiego tutto ciò che posso e poi mi saluta e dice: ci vediamo sulla strada! Sono sollevata che non mi abbia proposto di fare l’autostop insieme, tra le altre cose pur avendo pagato per l’uso del bagno ha chiaramente pensato di non lavarsi affatto, e certamente se trovassimo un passaggio insieme il guidatore cercherebbe di scaricarci alla prima occasione.

In breve tempo mi metto anch’io in cerca di un passaggio, carica di tutte queste energie negative gentilmente offerte dagli ospiti dell’ostello. C’è vento freddo ed effettivamente le macchine sono poche e non si fermano. Decido di camminare un po’: non so se lo zaino sia più leggero perché ho indossato scarponi e vestiti pesanti, o perché sono sempre più allenata. Cammino per qualche chilometro, è passata oltre un’ora ma niente: quando arriva una macchina mi fermo e faccio cenno per chiedere un passaggio, ma non si ferma nessuno. Sto iniziando a temere che dovrò farmela a piedi fino a Holmavìk quando finalmente si ferma una jeep con a bordo Alessandro e Giambattista, lombardi come i ragazzi di ieri sera e come anche quelli di ieri pomeriggio che poi sono spariti dell’ostello. È una delle prime volte che a darmi un passaggio sono turisti italiani e all’improvviso vengo catapultata in una fitta e felice chiacchierata su avventure islandesi e quotidianità italiana, con tanto di caffè in un locale di Holmavìk, momento di panico per rischio multa per divieto di sosta, e visita del tutto evitabile all’inutile museo della stregoneria di Holmavìk. Cinque minuti e cinque euro di biglietto più tardi, abbandoniamo il museo rassegnati al fatto che i musei in Islanda vadano invariabilmente ignorati.

E così siamo di nuovo in viaggio per Drangsnes, il primo villaggio sulla costa di Strandir, solo una cinquantina di chilometri prima di Djupavík, dove sono diretta io. Loro si fermeranno lì, e anche io a quel punto penso di approfittare della sosta per provare i leggendari hot tub di Drangsnes, uno “d’epoca” e due moderni, ma tutti e tre collocati proprio in riva all’oceano. Un tempo, a quanto pare, la gente di Drangsnes andava in giro per il villaggio in accappatoio, ma ora non più, perché c’è uno spogliatoio dall’altra parte della strada. Il mio (nostro, perché anche i miei due nuovi amici sono qui per questo) piano di provare gli hot tub, comunque, fallisce, perché viste dalla macchina le piscine sembrerebbero vuote.

Saluto e ringrazio Alessandro e Giambattista e mi rimetto in cerca di qualcuno che vada più a nord, verso Djupavík. La strada in quella direzione è una specie di sterrato e immagino ci vorrà del tempo perché passi qualcuno. E invece le risate con Alessandro e Giambattista hanno letteralmente messo in fuga le energie negative, e dopo nemmeno un minuto di attesa il camion di Christian si ferma e mi fa saltare su. Mi arrampico con tutto lo zaino su per i gradini del camion, con grande stupore del camionista che era venuto a darmi una mano a salire. Vorrei spiegargli che un tempo mi sarei cappottata rovinosamente, ma che l’arrampicata mi ha cambiata. Ma Christian parla solo islandese, e io quasi zero. Capisco però che sta andando fino alla fine della strada, in un posto che si chiama Norđurfjőrđur, ma poiché la strada è una sola, passa anche per Djupavík e può mollarmi lì. Cerchiamo di comunicare a stento tra islandese e tedesco e scopro che Christian, come molti camionisti qui, trasporta pesce e va a Norđurfjőrđur a prendere il pescato dalle barche, per poi portarlo a Reykjavík.

La strada è incredibile, vertiginosa, tutt’altro che asfaltata, spesso a strapiombo sul fiordo e in alcuni tratti più sgangherati percorsa soltanto da veicoli per la manutenzione stradale. Christian si ferma a scambiare due chiacchiere dal finestrino con tutti, sembra essere un’autorità del posto, o forse, ovviamente, in questa regione di meno di mille abitanti tutti si conoscono bene. Mi sento infinitamente al sicuro a viaggiare con un camionista locale avvezzo a certe strade e a certe pendenze, e ricordando ciò che mi ha consigliato Marco, toscano conosciuto a Korpudalur qualche giorno fa, mi dico che devo cogliere l’occasione e chiedere a Christian se posso andare con lui fino alla fine della strada, tanto poi lui torna indietro in giornata. Non so come, ma riesco a spiegarmi e così inizia il mio viaggio a bordo del camion fino a un posto, Norđurfjőrđur, dove non avrei mai pensato di riuscire ad arrivare in autostop.

Il camion si ferma in ogni villaggio a raccogliere le casse vuote per il trasporto del pesce. Christian mi illustra a gesti e parole in islandese i posti e i loro nomi. Lo scoglio, la scuola, l’aeroporto. Si stupisce che io lo preceda dicendo la parola “aeroporto” in islandese. Dice qualcosa del tipo che sono sulla buona strada per imparare. La costa della zona di Strandir è la più estrema di tutta la regione dei fiordi. Ottocento abitanti, cinque piscine termali, una delle quali sta oltre la fine della strada, ci arrivi solo a piedi o in barca. Montagne a picco sul mare, storie di stregoneria, ghiacci e pescatori, diversi campanili e una scuola per cinque bambini. Cinque fortunati bambini, mi dirà più tardi la signora che gestisce il cafè di Norđurfjőrđur, locale straordinariamente bello e curato nonostante sia aperto solo tre mesi all’anno.

A Norđurfjőrđur Christian mi annuncia, ovviamente in islandese, che si fermerà ad aspettare le barche che portano il pesce, per un tempo che potrebbe variare da una a tre ore. Qui vicino c’è una di queste piscine termali sperdute in riva all’oceano, vorrei trovarla rapidamente. Scott e Caroline, meravigliosi professori americani che ho conosciuto all’inizio del viaggio, mi hanno detto che questa piscina sta proprio alla fine della strada, alla fine di tutto, dopo l’ultimo villaggio e dopo l’ultima guesthouse. E che è spettacolare. Faccio l’errore di non chiedere al bar e mi incammino lungo la strada cercando la piscina, ma non la trovo. Torno indietro dopo un po’ di cammino nel timore di perdere di vista Christian e il camion dove c’è il mio zaino.

Il paesaggio è spettacolare e sono sazia di emozioni anche senza la piscina di Krossnes, che resterà comunque un piccolo rimpianto. O, a seconda dei punti di vista, una scusa per tornare. I posti dove la strada finisce mi hanno sempre affascinata, dalla mia prima volta sulle Alpi in un posto che si chiama Pian del Lupo, dopo il quale c’è solo sentiero, rifugio e ghiacciaio.

Vado al cafè e la signora mi spiega che la piscina è a tre chilometri da lì, o mezz’ora di cammino a passo molto spedito. Non vedo Christian a cui chiedere quanto tempo ho, così decido di sedermi qui e fare merenda. Si sta davvero bene. Arriva Christian e cerca anche lui un tavolo dove sedersi. Lo invito a sedersi con me, e spiego alla signora che sono lì a Norđurfjőrđur grazie a lui, che mi ha portata qui in autostop. La signora del cafè, alta ed elegante, mi risponde: siamo tutti qui grazie a lui! E capisco che lui è l’autorità del posto perché suo è l’unico camion che porta a Reykjavík il pesce di qui.

A tavola con Christian non sappiamo che dire, lui scruta il mare dalla finestra e mi indica le barche piccole in arrivo col pesce. A quelle ci pensa una persona al lavoro sul molo, che scarica il pesce e lo mette nelle casse destinate al camion. Quando arriveranno quelle più grandi, invece, sarà lui stesso a prendere le casse con il muletto e caricarle sul camion. Intanto io resto nel cafè ad osservare dalla finestra le operazioni sul molo, il tetris che Christian farà con le casse che continua a spostare all’interno del camion.

È quasi ora di andar via quando fanno il loro ingresso i miei amici di stamattina, Alessandro e Giambattista, che arrivano dritti dalla piscina alla fine della strada. È un attimo, mi arrampico sul camion a riprendermi lo zaino, corro a ringraziare Christian e a spiegargli, ma non so come, che ho trovato qui degli amici che mi riporteranno a Djupavík, dove devo ancora prendere possesso della mia stanza. Una birra e altre risate e poi la strada di ritorno a Djupavík con loro, foto alle pecore che passeggiano tra boe colorate su spiagge invase da legna che il mare ha portato qui dalla Siberia, lotta con le sterne artiche, altri racconti, e come se questa giornata non fosse stata già davvero speciale, una foca. Se ne sta lì, a pochi metri da noi, sugli scogli a bordo strada con sullo sfondo Djupavík, l’ex fabbrica di aringhe e la cascata, uno dei posti con maggiore fascino che abbia mai visto. Con Alessandro, il fotografo dei due, scendo dalla jeep in silenzio, ci avviciniamo pian piano, la foca non scappa, è bellissima, sorniona, una magia che dura fino a quando, ingorda, non mi avvicino un po’ troppo, e lei ci guarda un’ultima volta e s’infila in mare. Ieri pomeriggio le avevo cercate, le foche, a Broddanes, invano, ma non era la giornata giusta. Ora è il giusto dono per la nostra serata, per la cena tutti e tre al ristorante dell’Hotel Djupavík, un posto magico, carico di oggetti, di storie, persone gentili che a bassa voce t’invitano a metterti comoda, a firmare il libro degli ospiti, a sentirti a casa. Dove a mezzanotte un’ospite e un ragazzo che lavora qui si raccontano sottovoce ciò che hanno capito della storia per cui sono arrivata qui, mentre io siedo, forse dimenticata da loro, su un divano dietro la parete con le lucine che qui non sono solo di natale.

Il cielo è carico di nuvole e manca solo un tramonto degno di questa giornata, di questi incontri, della felicità di essere arrivata con mezzi semplici e un grande zaino a completare il giro dei fiordi, fino a laggiù, fino alla fine della strada, non per mettere delle bandierine ma perché c’è un mondo da scoprire dietro ogni curva, e da ogni macchina che potrebbe fermarsi a darmi un passaggio, da ogni compagno di stanza in ostello, si apre una storia, un mondo di storie. Ho scritto una pagina lunga, ma sono infinitamente più ricca di come mi sono svegliata stamattina. E c’è ancora domani.

Djupavík, Strandir, fiordi del Nord-Ovest, Islanda.

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