Il viaggio a piedi. Da quando quest’estate ho iniziato con l’autostop, guardo mappe elettroniche e cartacee con lo sguardo sognante di chi vorrebbe riuscire a partire senza prendere più tutti questi aerei. Non è che abbia paura di volare. È che il livello di emissioni prodotto da un volo aereo è tale da vanificare tutti i miei sforzi per vivere in modo sostenibile. E quest’anno, con quelli che sto per prendere, sono a quota dieci voli, tutti internazionali. Senso di colpa alle stelle. E poi, ho sempre paura di perderlo, l’aereo. Soprattutto perché i voli economici che prendo partono quasi sempre all’alba, quando i mezzi pubblici scarseggiano, e se dovesse saltare una corsa del trenino per l’aeroporto non saprei bene come cavarmela. Una volta, a Termini il primo treno in partenza per l’aeroporto era indicato al binario sbagliato, e insieme a molti altri mi sono trovata a salire e aspettare la partenza di un convoglio che non avrebbe lasciato la stazione prima di un’ora, mentre il primo Leonardo Express della giornata lasciava la stazione indisturbato – e probabilmente vuoto – da un altro binario. Miracolosamente ero riuscita ad arrivare all’imbarco del mio volo appena in tempo. Ma da allora non ho smesso di temere i brutti scherzi che il trasporto pubblico romano potrebbe giocarti quando hai un volo di prima mattina.
Comunque, fino a quando volare costerà così poco, non avrò voglia di passare settimane a studiare tragitti e incastri tra pullman low-cost, treni, BlaBlaCar e autostop per giungere via terra, spendendo poco e viaggiando pianissimo, a un paio di migliaia di chilometri di distanza. Anche perché al momento ho un lavoro a cui tornare alla fine del viaggio e non troppi giorni di ferie. Usarne la metà per raggiungere la mia destinazione e tornare indietro mi pare uno spreco non indifferente.
E così, il viaggio a piedi, per il momento, è solo quello da casa alla stazioncina da cui passa il treno regionale diretto a Fiumicino. Il buon Cima, mio amico e vicino di casa che prende aerei con la stessa frequenza con cui io bevo tazze di latte, mi ha insegnato un annetto fa che il modo più semplice per arrivare all’aeroporto da casa nostra è andare a piedi a questa stazione e prendere il regionale da lì. Due sere fa mi ha rassicurata sul fatto che il percorso, di notte, non è pericoloso. Io, per la verità, al fatto che potesse esserlo non ci avevo proprio pensato. La mia preoccupazione, piuttosto, era di capire se con quel treno sarei riuscita ad arrivare in tempo all’imbarco del volo senza troppi patemi.
Alle quattro e mezza di un giovedì notte qualsiasi, il Pigneto è ancora sveglio. Probabilmente c’è molta più vita a quest’ora di quanta non ce ne sia appena prima dell’alba. Uno dei locali sotto casa è ancora aperto, con la saracinesca a metà. Ieri sera c’era un concerto che ha fatto fallire almeno in parte il mio tentativo di addormentarmi molto presto per compensare la levataccia. Qualche isolato più in là, dove fino a pochi mesi fa c’era il cantiere della metro, due ragazze ridono sedute a terra in mezzo alla strada, mentre i due ragazzi che sono con loro, occhi stanchi e mezza parola ogni tanto, aspettano pazientemente in piedi.
All’isola pedonale i locali hanno chiuso, sono rimasti solo gli spacciatori. Cinque o sei, ognuno prova a dirti una parola, un’altra, poi ti lascia stare e torna dagli altri. Nel dubbio affretto un po’ il passo, anche perché secondo Google maps da casa mia alla stazione ci vogliono ventisei minuti a piedi, ma arrivata più o meno a metà strada non ho idea se sono ancora al passo con la tabella di marcia. L’istinto dell’autostop ce l’ho sempre, quando passa una macchina che va nella mia stessa direzione per un attimo penso di fermarla e farmi dare un passaggio per risparmiare minuti preziosi. Dall’isola pedonale in poi, però, è letteralmente tutta discesa e silenzio, oltre al profumo di cornetti che un furgone sta consegnando in giro.
La macchinetta per fare i biglietti del trenino parla a voce così alta che è impossibile comprare un biglietto senza rivelare la propria presenza alla piccola stazione vuota. In realtà i passeggeri del treno delle 5:07, il primo della giornata, non sono neanche pochi, e sono già tutti al binario. In aereo vorrei dormire, e quindi non ho preso neanche un caffè prima di uscire di casa. A neutralizzare il colpo di sonno che mi abbatte nel momento in cui il treno lascia la stazione Tuscolana, però, ci pensa il trio di passeggeri romani che mi fa compagnia un sedile più in là. Nei loro discorsi, una dettagliata e competente analisi tecnica dei presunti piani dell’Isis per colpire la metro di Roma, che i tre hanno ricostruito con dovizia di particolari dalla lettura dei free press come Leggo dell’ultima settimana. Mi appassiono per qualche minuto ai loro commenti ansiogeni, ma l’effetto in fondo è uno solo: spengo l’interruttore, non ascolto più. La città si sta svegliando, sì, si sta svegliando dalla notte, ma in realtà mi pare immersa in un sonno più profondo, ha perso la ragione, forse l’ha persa da un pezzo. Di sicuro, non mi ci ritrovo. Per un po’ voglio solo sparire. Sto partendo, e per dieci giorni spegnerò internet. Sono sicura che mi piacerà l’effetto che fa.